Global(e) | 2003
Le avanguardie storiche dei
primi del secolo scorso si sono immaginate città ariose e libere da
vincoli spaziali e temporali.
Senza storia alle spalle ma con un grande futuro davanti.
Questo pensiero si è rapidamente diffuso per mezzo dei nuovi
mezzi di comunicazione. Il risultato sono le nostre periferie: Firenze come
Milano, Roma come Napoli. Oppure le grandi megalopoli dei “paesi altri”: Città
del Messico o Nuova Delhi non fa differenza.
Tutte uguali; tutte non ci comunicano emozioni.
Tutte brutte.
Ben prima i popoli e i movimenti antichi ci hanno regalato la
città storica che conosciamo. I Romani con le strade e gli acquedotti. Il
Gotico con le chiese mirabili. Il Rinascimento con i palazzi e le piazze.
Questa sorta di linguaggio universale ha trovato man mano riscontro e adesione da parte della società del
periodo.
L’architettura come arte totale o, come si dice oggi,
globale.
Oggi le nuove tecnologie e le comunicazioni in tempo reale ci
consentono di sapere in diretta quello che avviene dall’altra parte del mondo.
Tutti ci ricordiamo dell’undici settembre.
Quindi tutti conosciamo l’ultima opera dell’ultimo “maestro”.
Ma l’architettura non è più capace di regalare emozioni.
Forse ci stupisce l’arditezza delle forme o l’uso di nuove
tecnologie e materiali ma non colpisce i sensi interni dell’utente finale.
Questo non mi pare buono.
Senza scadere nel vernacolo credo che l’adesione allo spirito
dei luoghi (al contesto come si diceva una volta) interpretata e attualizzata
dalla conoscenza di un mondo globale sia la strada da percorrere.
Forse
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