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Il cavatore



Il cavatore | 2005

Mi è capitato una volta  di disegnare una cava per un concorso.

La buca era nel Chianti vicino a Siena e il tema era il recupero ambientale con destinazione turistica. In realtà il progetto non è mai cominciato e quindi il concorso mai finito.

Della cava mi è rimasto il ricordo della sua visita alla fine di una mattina di fine primavera. Credevo di veder pietre tagliate e invece c’erano solo sterpi e relitti di ferro. Macchine dimesse e strutture reticolari abbandonate; gru arrugginite e nastri trasportatori immobili. Tutto fermo in attesa di un click che rendesse energia. Un cantiere congelato come se l’attività estrattiva si fosse interrotta all’istante.  Le persone se n’erano andate ed erano rimaste solo le piante e le zanzare a presidiar il fortino. Ora la rumba era condotta dalla sterpaglia che senza fretta riprendeva il controllo del luogo. La vittoria era solo questione di tempo e la gramigna non aveva fretta. Disegnavo quei mostri con le ossa di acciaio e la pelle di lamiera nel mentre che ‘sti pensieri mi si affastellavano nelle viscere e nel cervello. Allora di botto decisi che il progetto non era necessario. La cava era già un luogo con la sua identità. L’uomo era già arrivato a lanciare la sfida e poi se n’era andato via. Che ci pensassero le mosche e le zanzare e la sterpaglia tutta a chiuder la partita.

Che le piante ricoprissero le macchine e non se ne parlasse più.

Di quel giorno mi sono rimasti quei ricordi e anche certi piccoli disegni su carta spolvero. Disegni d’intenzione che provavano a raccontare quel posto. Disegni con la biro bic a inchiostro nero. Disegni in forma di appunti per fissare il momento. Vedute disegnate e poco altro.

E poi ieri ho rivisto le stesse macchine dopo quindici anni.

Queste però funzionano ancora. Sono anzi lucenti e operanti e diaboliche oserei dire. Raspano e bucano, tranciano e segano, spaccano e tritano, sfiammano e levigano e anche lucidano. E chissà che altro ancora. Il sole dardeggia ancora nel cielo nonostante l’estate sia finita da due giorni. Siam partiti in cinquanta e più di buon ora. Siam partiti con un autobus blu dai nostri paesi collinari verso le cave. Le cave del porfido del Trentino.
Durante il tratto finale del viaggio di avvicinamento si sono contate venti e più ferite sui fianchi della montagna. Venti e passa rasoiate a incidere le pietre. Venti e oltre chilometri di stretti tornanti lungo viottoli un tempo per capre e oggi per autoarticolati da ventimila e passa quintali. E ora finalmente ci siamo.

Siamo in cava.

I fronti dello scavo sono alti e scoscesi quasi a piombo. Lastroni di pietra compatta e scistosa e cristallina alti venti e più metri. La cava appare arcigna e scabrosa come il materiale che viene coltivato. Una pietra dura e compatta dal colore vagamente violaceo ma a volte grigiastro o anche rossastro. Il colore o meglio il tono cambia a seconda degli strati di giacitura. In cava ci sono le pietre e ci sono anche i cavatori. Gente dura come la roba che strappano dal monte. Ci sono i ruspisti concentrati sui comandi e i martellatori con i bracci grossi. Ci sono anche quelli che sbozzano e rifilano. Ho conosciuto i fiammatori e anche gli addetti alla frantumatrice. A quel mostro meccanico simile al Tirannosaurus Rex  ma però fatto di  reticoli di acciaio, tramogge di lamiera e nastri elevatori. 

E poi in cava c’è la polvere.

Tanta polvere e rumore. Rumore come se piovesse. Ricordo che il temerario del gruppo si è improvvisato martellatore e ha scoperto che se la terra è bassa la pietra è dura.
E poi sopra la cava ricordo di aver scoperto una baita. La baita è di legno e di pietra. Dentro la capanna c’è una cantina scavata sotto la roccia. Dentro la cantina ci sono delle bottiglie di vetro verde. Dentro le bottiglie il vino bianco e il vino rosso di queste parti. Buoni.

E poi c’è un bambino.

E’ il figlio di due del gruppo. Non ricordo i nomi e neanche i cognomi dei genitori ma quello del piccino si e vediamo se avete voglia di indovinare nel mentre vi fornisco un aiutino. Allora … vediamo … dunque … ha a che fare con la terra e con la cava.

Pietro. Bravi.

Lui è un bambino di tre anni tra pochi mesi. Moro con una faccia simpatica e uno sguardo vispo e curioso. Si muove per la cava come un grande e si diverte come un pazzo. Ho il sospetto che quello di ieri sia stato uno dei suoi giorni più belli. Forse per lui la cava è un posto magico e le macchine animali fantastici che sbuffano e soffiano. E magari stanotte sogna, non me ne vogliano i genitori, il mestiere che farà da grande.

Non il banchiere e neanche il panettiere. Non il postino e neppure il salumiere. Certo non l’insegnante e manco il dottore.  E sicuro come il sole non l’architettore ma semmai il cavatore.

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