Lettori fissi

Che faccio suono?

Accatastata, 2016



Che faccio suono? | 2011 - 17
Mario
non ti resta che ascoltare
l'eco che hanno messo nel finale...
Mario
(Franchi – Donaggio)      1976 
esegue Enzo Jannacci     1979
                                  

Ho molto amato Mario; soprattutto durante gli studi ma anche dopo.

A quei tempi l’ho cercato in tutte le riviste che mi circolavano per le mani. Certi giorni di stanca li passavo in biblioteca alla ricerca di sue immagini da catturare con la macchina delle fotocopie che poi ordinavo, in rigoroso ordine estetico, durante i lunghi viaggi da pendolare.

Ho anche comprato un suo libro.

Era uno dei suoi primi e parlava interamente delle sue opere fino alla fine dei settanta. Formato vagamente quadrato: ventiquattro centimetri di lato, dorso di millimetri dodici o giù di lì, interamente in bianco e nero. Elegantissimo. L’ho molto usato tanto da consumarne i lembi della svolta. Ricordo che una volta mi è capitato di prestarlo ad un compagno e lui non è mai più tornato. Che bell’amico.

Ho anche provato a contattarlo.

Correvano i primi giorni dalla chiusura dello studio associato e mi stavo guardando intorno alla ricerca di altre e nuove opportunità di lavoro. Una mattina, durante la consueta ritirata delle sette, leggo un trafiletto a pagina trentatre del Venerdì di La Repubblica. Saranno state una cinquantina di parole. Si dava conto dell’imminente fondazione di una nuova scuola: l’Accademia di architettura di Mendrisio in Canton Ticino, CH. Si raccontava che uno dei promotori sarebbe stato, per l’appunto, il mio eroe. Rammento che mi adoprai per alcuni giorni alla ricerca di un indirizzo valido. Ma non era facile. Internet era da poco in essere e non di uso comune.

E comunque a me interessava scrivere una lettera su carta.

Non a mano per carità; considerato che ho la grafia di una gallina o al massimo di un tacchino. Mi venne in aiuto il “Professore” che era suo buon amico e aveva tutti i contatti. Ergo allora infilo il foglio bianco nella Lettera 22 e scrivo la missiva allegando Curriculum e immagini e disegni. L’intento è quello di sondare la possibilità di poter essere invitato all’insegnamento o alla collaborazione in quei luoghi. Il piccione viaggiò veloce, lo provava il cedolino tornato indietro, ma la risposta si fece attendere assai. Dopo un paio di mesi, con flemma inglese, arrivò una busta intestata contenente l’agognata risposta. In verità non ci speravo ormai più e nel frattempo mi ero organizzato in altro modo. Non ci pensavo più che potessi diventare insegnate in Svizzera.

E infatti non lo diventai.

La risposta era firmata dal Direttore della Scuola. Non era Mario ma un suo buon amico di cui conoscevo alcuni lavori. Era secca e precisa. Lodava il CV inviato ma in sostanza diceva che erano già dotati di personale bastante alla bisogna.

Quindi salutava e ciao.

Alcuni anni dopo quella vicenda mi è capitato di poter assistere ad alcune sue conferenze in giro per lo stivale. Avevo voglia di chiedere che mi rendesse conto della sua non risposta o meglio della replica per interposta persona. Ma sempre ci saranno state trecento persone e anche di più. E poi normalmente era protetto da un codazzo di assistenti e portaborse. Era oramai diventato un archi-star e come tale inavvicinabile dai comuni architetti condotti come io sono.

Ancora dopo ci siamo sfiorati.

Ero stato a salutare il Sindaco di un paese qui vicino. Attendo con diligenza in sala d’aspetto per le prescritte ore una e trenta minuti e poi la segretaria mi annuncia. In sala trovo il politico che mi parla di quest’architetto bravo, contattato dalla Curia vescovile, che ha appena consegnato il progetto per la nuova chiesa. Nell’angolo c’è il modello di un volume parallelepipedo a base rettangolare con due camini, meglio due grandi camini, tagliati in alto in maniera obliqua. L’amministratore mi confida per sovra più che l’Artista se n’è appena andato insieme al Monsignore. Sono usciti dalla porticina di servizio che risponde nel corridoio.

Perso per un niente.

Poco anni dopo per un pelo non ci parlo al telefono. Era un venerdì di fine giugno ed ero a cena con il nuovo Sindaco della stessa cittadina. Insieme ad un gruppo di colleghi ospitavamo un aspirante archi-star e anche giovane direttore di rivista. Ci stavamo godendo il dopocena in cima al poggio immersi nel giardino dei profumi. Una roba non male. Nell’attesa del caffè si finisce a parlare del progetto del momento: la nuova chiesa disegnata dal nostro eroe. L’aspirante l’avevo conosciuto al tempo degli studi e lo ricordavo entrante assai.

E lo fu molto.

Il caffè tardava e lui se ne uscì con un simpatico commento sul fatto che sicuramente il nostro disegnatore doveva essere oramai disteso sul divano di casa.  Si prese la parola e la scena e raccontò che nel Cantone si comincia il lavoro la mattina presto e la sera si fa come i polli: appena fa buio si tirano giù le serrande. Saranno state le dieci di sera o poco più: il giovane  mi chiede, visto che il suo è scarico, in comodato d’uso il telefono mobile e compone il numero. Non mi pare il caso di raccontare la conversazione tra i due conoscenti e il politico poi. Ricordo solo che inutilmente sperai che mi passassero la cornetta in modalità “on”.

Me la resero in “off” e tanto basta.

Negli anni successivi scopro che il plastico che avevo intravisto è stato cassato. Al suo posto il nostro ha prodotto un altro progetto di sicuro migliore. A me capita di vederne la versione del definitivo e “non mi pare cosa … anzi”. Non c’ha niente a che fare con i luoghi di questa piccola città di fondazione medioevale. Con grande modestia osservo e mi riservo giudizio a costruzione ultimata.

Questo mi riprometto e così agisco.

Quando anni dopo inizia il cantiere evito di passare nelle sue vicinanze. Ed è abbastanza difficile visto che la scuola dei ragazzi si trova li vicino. Comunque com’è e come non è riesco ad essere abbastanza disinformato sul procedere della fabbricazione della chiesa di Santa Maria Nuova. I ragazzi li accompagno a piedi entrando e uscendo dall’ingresso a nord e per attraversare il paese percorro sempre viale Europa. Per la spesa mi regolo di conseguenza usando botteghe lontane dalla rete arancione del cantiere. E quando sono nella piazza principale, da dove di regola sarebbe difficile non vedere il costruito, volto sempre la vista verso il Ciuffenna o al massimo verso il Pratomagno. Insomma resto fedele al principio che mi sono imposto.

Aspetto con fiducia il giorno dell’inaugurazione.

Che finalmente arriva il nove ottobre duemiladieci anche se secondo me la volevano spacchettare il ventidue del mese prima quando cade l’equinozio d’autunno. Ma tant’è. Il pomeriggio del giorno preventivato mi presento in luogo con un ora abbondante d’anticipo.  Alle due e cinquantasei parcheggio vicino al palazzetto dello sport e mi affaccio in piazzetta che è piena come non lo sarà mai.

Evidentemente anche le altre 999 persone hanno avuto la mia stessa idea.

Il triangolo davanti all’ingresso è colmo di mille cristiani e anche più. Poi, dopo il prescritto ritardo liturgico, arrivano nell’ordine Vescovo, Parroco e Architetto. Comincia la cerimonia che sarà lunga e noiosa. Sono anche sicuro che non riuscirò, stante  la presenza di un discreto “parterre du roi “ e il codazzo di persone e personalità locali, ad incontrarlo per la domanda delle domande. A questo punto svicolo lungo il bordo della folla e mi vado a vedere la scatola di mattoni con le scale verso le colline.

Prima dentro e poi fuori.

Ci giro intorno e poi salgo sulla collina del cimitero che dista almeno un paio di cento di metri. Non mi pare il caso e non voglio proprio per scelta di campo raccontare impressioni o esprimere critiche di persona non qualificata. Però questa la voglio proprio scrivere. La copio par pari dal taccuino nero che avevo quel giorno: “ … dal poggio dei morti, quindi dalla parte del doppio abside, pare un paio di zoccoli con le zeppe. Assomiglia al dietro di certe calzature in sughero o legno massello che son di gran moda d’estate. Fuori luogo!”. Mi resta  l’amaro in bocca  per l’interrogativo che vorrei tanto fare al progettista e che probabilmente farò alla prossima occasione.

Quando mi capiterà non ne ho idea.

Magari farò in modo di farlo capitare. In quell’incontro gli farò il quesito che mi attanaglia da alcuni minuti. Almeno da una trentina. Di sicuro da quando son salito quassù sul muretto del cimitero a vedere il doppio abside: “Perché due zeppe?”.

Ma eccoci vicini alla fine.

Verso la fine del mese di aprile dell’anno successivo una nota società di sistemi sanitari e tecnologici mi fa l’onore di invitarmi presso la loro sede di Lugano per certi corsi di formazione e aggiornamento. Era un periodo di fiacca lavorativa e quindi accettai con piacere la convocazione che prevedeva, fra le altre la totale gratuità del pacchetto ospitalità e corso.

Nella missiva ufficiale si rammentavano i giorni e il mese  stabiliti.

Ecco che però verso la metà del mese della Madonna mi becco un infarto che rischia di minare la partecipazione al seminario e sopratutto alza le probabilità che il vostro raccontatore non arrivi alla soglia prescritta; in realtà precognita dal medesimo; dei novantaquattro. Per fortuna di tutti, mia e loro, l’angioplastica e gli stent coronarici funzionarono a dovere tanto che son qui a raccontarla insieme a due accadimenti per me fondamentali: ho mandato al diavolo le sigarette, una ventina di media al giorno per circa trent’anni e ho acquistato una decina di chili che non riesco a scaricare. Comunque come sia il giorno della dimissione me ne torno a casa senza pensar minimamente al fissato viaggio. Pregusto invece i sette giorni di convalescenza imposta che mi ha prescritto la dottoressa. Al terzo mi collego alla posta elettronica e mezz’ora dopo sono a scrivere la conferma della presenza al corso formativo professionale.

Il ventitre dello stesso mese parto per la Svizzera.

Ricordo di aver inutilmente cercato sponda e compagnia di colleghi che improvvisamente avevano tutti in sacco daffare. E non solo lavori correnti ma fabbriche, palazzi e chiese. E per sovrappiù con scadenze contrattuali da brivido. Ergo la mattina presto sono in stazione da solo e in solitaria arrivo a destinazione. Lasciamo, per altri scritti, il dettaglio delle giornate di formazione e saltiamo subito al dopo colazione del giorno dopo la fine dell’impegno professionale. Ho prenotato il treno per le sedici e zero quattro e so già che mi dovrò sorbire le cinque ore del ritorno. Allora ne ho lasciate almeno altrettante per me: per la visita alla città e non solo. Le prime le passo godendo la passeggiata sul lungo lago e poi dentro le viuzze del centro storico; quelle del commercio di beni di lusso che non mi posso permettere e non mi interessa acquistare. Poi alla ricerca di alcuni ricordi tipo “ninnoli e nannoli” per il mio amore e i ragazzi che son rimasti a casa. Verso mezzogiorno sono davanti al museo d’arte moderna. Visito velocemente le sale e la mostra di punta di quel mese. Mi soffermo piuttosto nel book shop dove acquisto diversi cataloghi a prezzi stracciati.

Mi faranno compagnia più tardi.

I giorni precedenti mi ero ritagliato alcune ore per visitare certe opere disegnate da Mario gli anni passati. Tutte architetture vedute su riviste e libri che dal vivo acquistano corpo e materia. Invitano ad essere toccate e disegnate. Riempiono in sostanza tutti i sensi. Non male. Veramente. Ma ora bando alle ciance e a tutto il resto.

Devo stare sul pezzo.

Devo onorare una promessa che mi son fatto l’anno passato. Devo trovare “… aspetta un po’ che leggo l’appunto …”  via Ciani 16, 6904 Lugano. Devo trovare un edificio di cinque piani in mattoni di forma cilindrica con grandi tagli verticali. Devo trovare il suo studio. Ho guardato la mappa e calcolato il percorso. Saranno un paio di chilometri. La giornata è bella; fresca e soleggiata. L’ideale per una passeggiata. Ad occhio ci vorranno una trentina di minuti a piedi. Zaino in spalla e via. Vado. Passo per il viale alberato lungo il torrente e intanto mi godo la primavera inoltrata che si avvicina all’estate.

Arrivato sono.

Controllo l’indirizzo per sicurezza. Mi avvicino all’ingresso. Sono davanti alla batteria dei campanelli. La domanda mi rimbomba nella scatola cranica da stamani appena sveglio. Mi perseguita e mi assilla. È come un mantra assai potente.

Che faccio suono?

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