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Mezzo foglio


haihaihai, mg 1968
Mezzo foglio | 2018

Quante linee ci stanno sopra un foglio diviso a metà?

Sopra ad un foglio formato A5 intendo. Quello che misura millimetri 210 per 148. La metà esatta dello standard A4 che è usato di normalità per stampe e fotocopie. Con delineate righe dritte o curve purché disegnate a mano con lapis o penna a china dei comuni spessori in commercio.

Ebbene una volta ci ho provato.

A contare i tracciati entro quei confini dimensionali mi ci sono messo di buzzo buono. Era ancora notte inoltrata quando ho cominciato. Tipo le quattro e rotte di un giorno di luglio dell’anno passato. Ero munito di un foglio del formato prescritto e di una penna Bic punta fine a inchiostro nero. Un macchinetta di caffè fumante, capienza tre tazze, zuccherata con miele di provenienza solidale e tanta voglia di scoprire l’arcano numero.

Con mano ferma e senza ausilio alcuno di righelli o similari attrezzi.

Prima linea 1, seconda linea 2, terza linea 3. E via e via. Tutte molto fitte badando bene che non si sfiorassero. Finito il primo passaggio di parallele ho cominciato le perpendicolari e poi le inclinate destre e sinistre. Dopo di ché mi son cimentato nelle curve, cerchi ellissi e chi altro ne vuole. E sempre contavo.

Era ormai salito il sole da una mezzora buona.

Ad un certo punto, ben oltre i quattro quinti, ero arrivato ad un numero assurdo che non ricordo più, anche se mi piace pensare fosse nella tabella della successione di Fibonacci, mi sovvenne un pensiero profondo: “Mi interessa veramente sapere quel numero?”

La risposta fu una ricca colazione a pane e pomodoro e una doccia fredda.

Poi presi un treno e cominciai a disegnare. Disegno bene in treno; specialmente sui locali. Quelli che si fermano a tutte le stazioni e a volte parcheggiano sul binario morto per aspettare il passaggio dei veloci. Sono inequivocabilmente innamorato dei lenti. Abito in campagna e quando devo andare in città bado bene di partire per tempo e salire sull’ultimo vagone. Quello snobbato dai più per via che arriva per ultimo. Sempre.

Nell’ultimo sedile dell’ultima carrozza mi accomodo in solitaria.

Dalla tasca sinistra della giacca mi giunge in mano, quasi come un magheggio,  il taccuino di finta pelle nera. È uno dei mille che furono prodotti una dozzina di anni or sono in occasione di certe festività invernali. Disegnati e promossi da un caro amico. Quando è aperto misura quasi come un mezzo foglio:  8,8 (x2) x 13,8 centimetri. Sul frontespizio porta stampato un marchio  in basso rilievo. È dotato inoltre di: una tasca per i biglietti sulla terza di copertina e di un cordino segnalibro in tessuto utilissimo invero assai a ritrovar la pagina vergine. È composto di cento foglietti grammatura 180 di carta giallina, quasi un cartoncino bristol ma più morbida e resistente, che sopporta con disinvoltura anche l’acquerello. Il blocchetto in brossura è perfettamente rilegato a filo refe.  Un filo elastico lo avvolge dalla quarta alla prima e stringe bene le pagine interne. Ha solo un evidente difetto che mi par giusto qui palesare: dopo usi successivi e reiterati il bordo della copertina si rovina impudentemente con spacchi e taglietti nei punti di svolta esterni. E questo, mentre incollo la ferita con una striscia di scotch di carta, mi fa incazzare notevolmente. D’altra parte ce lo sapevamo che, al tempo, stavamo replicando barra scimmiottando a nostro rischio e pericolo uno dei modelli di punta della casa editrice Moleskine. Anche se ad un costo inferiore alla metà.

Ecco questa è la composizione del quaderno da viaggio che preferisco.

Piccolo e trasportabile facilmente. Si caccia dentro la tasca di qualunque paltò, giaccone o simile. Poi basta una penna Pilot V5 a inchiostro liquido nero e sono in pista. Lo uso da almeno una decina d’anni. Ogni tanto provo altri supporti di forme e dimensioni simili ma poi torno sempre al “Bleck” come lo definisco con affetto tra me e me. Bleck come pronuncia storpiata del nero all’inglese ma soprattutto come “il grande”delle strisce a fumetti.

Di solito mi accompagna un astuccio di falsa pelle rossa.

Aperto sul lato sinistro corto contiene il necessario, di base, per colorare in viaggio. L’ho comprato nella primavera del novanta quando bazzicavo l’Università con la qualifica di Cultore della materia. Il Muro era stato abbattuto da pochi mesi e la gente dell’Est cominciava a circolare. Un giorno, era venerdì perché quello era il mio giorno di servizio, sulla seduta di piazza Brunelleschi incontro uno Slovacco che timidamente tentava di vendere le poche cose che aveva esposto sopra ad un banchetto riciclando e capovolgendo uno scatolone di cartone ondulato.

I ragazzi erano occupati allo struscio e noi assistenti si parlava di architettura.

Nessuno insomma se lo filava. Allora il giovane straniero si lancia all’approccio diretto con “Prosim” (Per favore) nel mentre mostra la sua mercanzia. A me casca lo sguardo sul portapenne sanguigno. E decido che è mio. Insieme a sei porta mine di colore: nero, giallo, verde, azzurro, marrone e rosso. Con altrettante mine di ricambio in apposite scatoline cilindriche. Compreso nel prezzo, che non ricordo con esattezza ma irrisorio rispetto ai nostri,  un porta mine più piccolo per il disegno tecnico e un paio di occhiali di plastica bianca con lenti verde ramarro e la stella rossa in rilievo. Olé.

Tutto questo mi accompagna da allora.

Anzi nel tempo la dotazione si è arricchita di: alcune matite colori vari di solito trovate per terra, un righello trasparente centimetri dieci, mezzo lapis 2b, gomma e temperamatite. E siccome tutta ‘sta roba tenderebbe ad uscire fuori dalla confezione mi sono attrezzato con un bel elastico verde per tenerla al sicuro.

Mi piace pensare che il portaattrezziperdisegnare, mentre riposa nello zaino stretto tra quaderno e penna, possa scambiare due parole con la scatola delle Marlboro riusata come contenitore sanitario per le pasticche di Cardioaspirina e con il coltellino multiuso dal manico di osso striato. E magari tutti insieme si raccontano storie. Per parte mia uso i primi tre per disegnare, di normale, alcuni tra questi argomenti in ordine parso: oggetti di tecnologia facile, studi per modestissime architetture, attrezzi e macchine per produrre energia, incipit  di certi racconti che poi la Valentina trasforma in novelle, esercizi di grafica e impaginazione. Ultimamente poi mi sondato  a frutta, verdura, pane, salumi e scatolame vario.

È segno del tempo che fugge o del nuovo regime alimentare? Ai posteri.

Comunque disegno da quando ricordo.  Da almeno cinquanta.  Un’età simile ha il disegno formato A4 che ho trovato nello scatolone di mamma alla voce: “Massimo”. Io sono un grande raccoglitore di ricordi ma lei lo era anche di più. Fatto sta che quest’immagine rammenta un vero incidente. È un compito di quinta elementare e narra di quando mi sono travestito da aiutante macellaio per lavorare il maiale. Si racconta l’assoluta goffaggine del vostro eroe vestito da cuoco, con il cappello a soffietto e il resto, che ha appena infilato la mano destra nel tritatutto per macinare la carne.

Con tanto di fumetto che recita: “hai hai hai”.

Il resto è disegno di interni. C’è una parete di fondo con rivestimento di mattonelle rettangolari bianche e intonaco ocra sopra il metro e cinquanta. A destra c’è un frigo marca Rex di pari altezza. Al centro oltre all’aspirante norcino, in posa di profilo come un Tutankhamon qualsiasi, c’è un grande tavolo quadrato di legno scuro ingombro di pentolame, attrezzi e macchine da adoprare alla bisogna. Il pavimento è composto da grandi losanghe di graniglia colore rosa pallido assolutamente sproporzionate. È estremamente singolare che tutto è disegnato, senza averlo studiato, con le regole dell’ assonometria cavaliera.

Che è nettamente il sistema di rappresentazione che più amo.

Sono autodidatta ed estremamente legnoso a delineare umani, animali e facce. Non sono di sicuro un predestinato al disegno oppure un dotato di natura come alcuni amici che un poco invidio. Uno molto bravo della mia generazione, da poco passata la mezz’età, si è addirittura iscritto all’Accademia dove frequenta con profitto corsi di disegno di nudo e intanto si rifà la vista.  È lo stesso che nel settembre scorso ha declamato la sentenza che, per non scordare, ho vergata sul memo del telefono mobile: “Se sai disegnare il nudo sai disegnar l’architettura”. E lo dici a me che a mala pena disegno senza grazia perfino il  Modulor?

E perciò Isso, l’amico, è il mio mito.

A dir la verità avevamo in casa un grande disegnatore naturale che adesso si occupa d’altro. Rammento che replicava a memoria le sagome dei personaggi di gran parte dei cartoni televisivi e dei giornaletti per i ragazzi. Ma non si è mai troppo applicato. Anzi era incostante e discontinuo. Provammo timidamente, in più occasioni, ad indirizzarlo verso lo studio dell’Arte. Senza successo alcuno. Alla fine delle medie, spinto dal suo insegnante di disegno, dipinse una “Marilyn” alla maniera di Andy Warhol assai somigliante. Su tela a tempera e nelle dovute proporzioni. Senza nessun tipo di vanto parentale posso esclamare: veramente bello.

Poi basta. Appese il lapis al chiodo e ciao alla pratica del disegno.

Proprio ieri l’ho ritrovata in un angolo tra le sue cose in camera. Stavamo sistemando la stanza per poterla dipingere ed è saltata fuori. Son passati una decina d’anni ma si è mantenuta bene. I colori sono ancora vividi e il tratto è netto e preciso.  Allora gli ho chiesto una foto ed ho deciso di usare l’immagine  come sfondo alla pagina di apertura del Blog che sto disegnando in questi giorni.

A video è anche meglio.

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