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Vanno di coppia

Vanno di coppia,2018


Vanno di coppia | 2018 -19


Lo scorso mese ho fatto la Setteponti.

La strada ha origine antichissime. Secondo fonti attendibilmente attendibili; storico - geografiche e simili; il suo tracciato non si discosta molto dalla via romana battezzata Cassia vetus dal console Lucio Cassio. Sia come sia posso assicurare, ci metto una mano anzi due sul fuoco, che transitarci al tramonto è una goduria unica. Curve  a gomito, tornati, tratti in falso piano e attraversamento di torrenti rendono il percorso movimentato qb. L’ambiente e la storia lo rendono unico, tanto a piedi che con i mezzi. Basta guidare  un “Duetto rosso” o al limite aprire tutti i finestrini e par di volare.

Ci son passato, da est ad ovest, tornando da Arezzo.

Il sole era basso e rosso, ma anche giallo e arancio o meglio un misto dei colori dell’autunno. I boschi a destra davano dal verde al marrone passando per le molteplici gradazioni del giallo. Non sono di sicuro un esperto ma alcune mi sento di poterle mettere in fila: zafferano, albicocca, paglierino, cadmio, crema, mais, cromo e pastello. Il cielo era azzurro, terso e pulito. Sporcato solamente da sporadici ciuffi di nuvole bianche striate e stirate che facevano capolino dai monti del Chianti. Quasi una copia conforme a quelle dipinte da Giotto di Bondone e in tempi recenti da Lorenzo di Figline. Gli ultimi quindici minuti del viaggio; dopo due ore passate a discutere di un progetto che so per certo non si farà mai;  mi avevano rimesso in pace con la natura e con i suoi abitanti.

Col mondo insomma.

A Manca, poco sotto il greppo della strada, si stendono i campi appena arati e le vigne potate di fresco. E una serie di oliveti stranamente punteggiati di raccoglitori di olive. Omini e donnine in abiti da lavoro equipaggiati con gli attrezzi del mestiere: teli e scale, sacchi di iuta e cassette di plastica, rastrelli a mano, forbici da potatura e buon ultimo l’abbacchiatore a spalla. L’attrezzo infernale è composto da un blocco motore da indossare sulla schiena, un tubo in alluminio allungabile concluso in sommità  da due specie di mani in gomma. Queste hanno una decina di dita cadauna che si muovono con direzione alto-basso simile all’applauso. “Clap clap” fanno le mani. “Grrr grrr” fa il rastrello abbacchiatore mentre le olive, notoriamente pavide, cadono a terra nella rete che le imprigiona per sempre.

Queste scene sono però inusuali in questi giorni di metà ottobre.

In questa parte di Toscana; Loro Ciuffenna e dintorni; il frutto da olio si raccoglie alcuni giorni dopo i Santi. Anzi di regola si comincia il giorno della grande alluvione del sessantasei. Quasi a voler celebrare con un giorno lieto quello che tragico fu. E comunque di solito l’abbigliamento è composto da giubbotto pesante, pantaloni di flanella, cappello di lana e guanti da lavoro. Mica vestiti come per andare alla vendemmia che da noi si fa in settembre.

L’inconsueta scena mi frulla in testa per tutta la notte.

Poi la mattina, sull’argomento, interrogo un vecchio contadino e un giovane operaio agricolo. Tutti e due partono da molto lontano: dal buco dell’ozono, dallo scioglimento della calotta polare e scendono alla constatazione che “non ci son più le mezze stagioni”e via con simili battute trite e ritrite. Alla fine l’anziano se n’esce con “ … Ma ti ricordi come è stata calda quest’estate? … e l’autunno … ?”.  La constatazione è palese e chiude tutti i discorsi. Che sta significare: “ … O bellino … anche se a mezzo mese … le olive sono oramai mature e tanto basta”. Chi ha orecchie intenda e raccolga.

Tutto questo mi fa venir voglia di olive: raccoglierle, macinarle e ricavarci olio.

Saranno almeno una decina d’anni che non lo faccio. Da quando il babbo ha recintato, mentalmente, il campo degli olivi. Una quarantina di anni or sono ne furono piantati settanta che hanno fatto il loro dovere di frutteto da “evo” per i trent’anni successivi. Poi, dopo gli interventi alla schiena, l’operazione al cuore e la scomparsa di mamma, il proprietario del terreno ha ragionato come Sansone con i Filistei e ha preferito lasciare a se stesso l’oliveto e i suoi occupanti..

D’allora, anche per farlo campar tranquillo, in casa non se n’è più parlato.

Ricordo solo che una volta l’anno ci ho fatto una passeggiata verso la fine di settembre. Sempre di sabato e poco prima del tramonto. Mi vestivo da esploratore della giungla: pantalone corto di cotone blu e  maglietta bianca scolorita, scarpette in tela color sabbia modello Superga e cappello verde stile militare, canna di bamboo in sinistra e roncola in destra, coltello multiuso e taccuino nero riposti dentro lo zaino a tracolla. Insomma una specie di macchietta dello scopritore di terre lontane che andava a visitare un terreno a due passi da casa. Un luogo che però cambiava ogni anno.

Sempre in peggio.

Sterpaglia e pruni lo stavano infestando. Prima in terra e poi, pian piano, si arrampicavano sulle piante fin quasi a soffocarle. In qualche tratto i cespugli erano alti fin oltre i due metri. In certi casi, per proseguire, dovevo usare il tagliente. E comunque alla fine del  viaggio ero sempre marchiato di rosso con graffi e strappi in quantità. Non c’era niente da fare vincevano sempre loro: Rovi dodici e forse anche di più  – Indiana Jones  zero.

Insomma il campo stava morendo e bisognava por rimedio.

Intanto ho deciso. Per cominciare seguo i consigli dell’anziano lavoratore della terra. In barba a macchie e spine quest’anno faccio l’olio extra vergine d’oliva dagli olivi del campo. Da solo e senza ausilio di grande attrezzatura. La strada che porta la campo è da tempo diventata una boscaglia. L’unico accesso rimasto è passo pedonale in tangenza alla casa del confinante. Sarò accompagnato solo dal minimo indispensabile che riesco a portare a spalla. Mi basteranno una scala a pioli, forbici, roncola, rastrello e secchio con gancio da appendere al ramo. I vestiti sono i medesimi che uso per la ricognizione settembrina. Sono un poco macchiati di sangue ma che mi frega. Per coprire le macchie userò casomai la felpa arancione con il cappuccio. E per sovra più tecnologico aggiungo allo zaino il telefonino per ascoltar musica.

Mi par di essere pronto. Vado.

La prima coglitura dura poco più di un’ora. Gli anni passati ero stato in visita con lo sguardo del passeggiatore tra i rovi.  Camminavo per alcune centinaia di metri con le spine che mi aggredivano da tutte le parti e tenacemente resistevano ad ogni mio passo. Adesso scendo in campo con l’occhio del raccoglitore e noto che la vegetazione pare raddoppiata e anche più aggressiva. Appena scanso una pianta spinosa subito quella accanto mi morde da dietro. I pantaloni a gamba corta e la maglietta di cotone non offrono certo una gran protezione contro gli artigli affilati del Rubus ulmifolius e dei sui simili. E come al solito vincono sempre loro.  Dopo alcuni timidi tentativi di accesso agli olivi più grandi, quelli piantati al confine con la piaggia, ripiego verso quelli striminziti ma meglio accessibili vicino al viottollo.

Ne individuo sei e mi faccio posto con roncola e forbici. Son macchiato del sangue della battaglia di poco fa. Ma questa la devo vincere:  “ … Zac … zac … zac”. Con una decina di decise roncolate abbatto i rovi più grandi. Il resto li sistemo con le forbici da potatura. Ammasso morti e feriti in un angolo dello spiazzo e inizio la vendemmia dell’olive. Il secchio ha un manico che mi passo al braccio sinistro. Con quella mano abbranco e avvicino i rami bassi e con la destra uso il rastrello di gomma. “Grrr … grrr … grrr” fa l’attrezzo manuale che impaurisce i frutti e li fa cadere dentro al secchio. In realtà son più le olive che cascano in terra di quelle nel contenitore. Fa niente. Tanto lo so che dopo mi dovrò piegare in ginocchio perché, come diceva sempre il nonno, “ … la terra è bassa … Nini”. La tecnica non è delle migliori anzi forse è il sistema più infelice usato da quanto ricordo.

La giornata di lavoro frutta miseri chili tre.

Ci riprovo il giorno successivo sempre un paio d’ore prima del tramonto. Una specie di pausa caffè allungata e ritagliata tra gli impegni della giornata. Adesso uso la scala perché mi pare che in alto ci siano frutti maturi e più grandi. I maledetti rovi sono arrivati fin su in alto. Questi li uccido senza pietà. Poi accedo a Spotify e alla musica degli Stones che fa da sottofondo ai cinque chili del giorno.

Il successivo cambio tattica.

Divento aggressivo e cattivissimo sia con le sterpaglie che con i frutti. Uso le forbici per i rovi e la roncola  per i rami alti. Ho riflettuto sul fatto che gli alberi non son curati e potati da molti anni e quindi il ragionamento è che farò raccolta e potatura in un colpo solo. Mi pare l’invenzione del secolo supportata dal pensiero: “ … Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto”.  La nuova tecnica; anche se scoprirò non originale  ma usata da moltitudini di raccoglitori; da grande soddisfazione e ottimi risultati con sette chili che portano il bottino a quindici chilogrammi.

Per altri tre giorni affino il metodo fino  spolpare i sei olivi.

La sera del venerdì, dopo aver ascoltato l’intera discografia delle “Pietre rotolanti”, sono arrivato a pesarne quaranta. Li misuro con la bilancia di cucina tipo “Prima 3”. Tutta in plastica rossa, costruita in Italia verso la fine del settanta, di buon disegno, “… con tara regolabile tramite rotellina in plastica posteriore, indicatore a rullo, completa di piatto in plastica semitrasparente”. Perfettamente funzionante. E pure bella. Riempio il piatto fino all’orlo e leggo un chilo. Ripeto l’operazione per altre trentanove volte e vado a cena contento. So che manca l’ultimo sforzo per chiudere il proposito fatto la settimana prima: “ … devo almeno arrivare ai sessanta”. Ricordo bene che le produzioni familiari verso la fine del decennio passato sfioravano i sessanta quintali d’olive.

Son molto vicino a quell’uno per cento che voglio raggiungere.

Il giorno dopo ho tutto il pomeriggio libero e posso aggredire le due piante in giardino fin dal dopo desinare.. La prima è sotto casa. Trattasi di olivo nano, con più di vent’anni di vita, regalo di un caro amico per la nascita di Guido. È stato costretto in vaso fino a che, alcuni anni or sono, è finito in terra. Da piccolo e rachitico che era è rinato e sviluppato a gran velocità. L’anno prima è stato potato per la prima volta e quest’anno ha prodotto quattrocento grammi di olive. L’altro olivo ha una storia singolare. Intanto è stato acquistato con la partita dell’oliveto principale. Sarebbe dovuta essere la pianta numero settantuno. Quella destinata a produrre olive da tavola. Quelle giganti e verdi da preparare in salamoia e conservar per le merende di primavera. Doveva perché il padrone del campo e il suo attendente si confusero nel collocare il nastrino rosso che indicava la varietà lucchese scelta per la tavola. Confondendo nastro sbagliarono pianta che finì con la altre settanta nel campo degli olivi. A due metri dal portico piantarono la comune varietà frantoio che, nonostante gli errori umani, forse per la felice esposizione e la sapiente manutenzione è diventata una vera bellezza alta cinque metri e anche più.

Vado in cantina ha prendere il telo antistrappo per la raccolta a terra.

Adesso tocca a lei. Sono armato degli attrezzi prescritti e son carico come non mai. Stendo la rete e salgo la scala. Impugno un rastrello per ogni mano e li uso come se fossi un abbacchiatore umano. La cosa funziona bene e quindi continuo. Le olive cadono giù mentre io, novello saltimbanco, saltello tra i rami. Ogni tanto sposto la scala per assalire altre postazioni. La settimana appena trascorsa è stata splendida. Sole caldo e splendente con minima ventilazione. Pareva di stare in vigna al tempo della raccolta e abbigliati di conseguenza. Da alcuni minuti pare però che il tempo si stia guastando. Nuvolaglie grigiastre si avvicinano dal nord. Aumento il ritmo a trenta rastrellate al minuto. Procedo veloce. Voglio finire prima della pioggia imminente.

Sono al terz’ultimo ramo quando inizia.

Prima goccioloni fini e radi poi sempre più grossi fino al consueto acquazzone di fine ottobre. Mi guardo intorno. Sono solo con la tempesta. Mancheranno un paio di grossi rami al termine del raccolto ma non posso fare altrimenti. Scendo veloce e salvo il salvabile. Con quattro salti son in terra. Con altri sei ripiego il telo e lo trascino all’asciutto sotto il portico.  Mi asciugo alla bell’e meglio e separo il raccolto dal tessuto. La bilancia rossa mi è diventata amica inseparabile e serve a pesare i venti chili e  trecento dei frutti.

Bastano precisi anzi ne avanzano trecento per la mancia al frantoiano.

Ho assunto informazioni sulle stime di resa di quest’anno. Le percentuali variano dal tredici al sedici per cento. Che, per i profani, vuol dire: cento chili di raccolto fruttano in media quattordici barra quindici d’olio extra vergine di quello verde e amarognolo da “fett’unta agliata e abbrustolita”. Mi pare una cifra non male considerando che da una decina d’anni la nostra famiglia si approvvigiona ai grandi magazzini. E poi vuoi mettere la goduria di portare in tavola un ampolla e dire che è stata prodotta dalle olive del campo del nonno?

Impagabile.

Con questi pensieri mi accorgo delle mani unte. Le guardo e anche le annuso. La polpa dei frutti forma uno strato scivoloso sui polpastrelli e sul resto degli arti. L’odore d’olio mi assale le narici. Non lo sentivo da tempo. Sa di buono e mi fa venir voglia di assaggiare. Lo faccio con le labbra e proseguo con la lingua. Gustoso. Sa proprio di succo d’oliva appena franto. Se ci fosse un pezzo di pane a legna potrei anche fare la pazzia delle pazzie strofinandolo sul palmo delle mani prima di addentarlo a morsi come un lupo particolarmente affamato. Mi trattengo. Non per decenza, riguardo o decoro ma per via che in casa di pane non ce né. Tre giorni dopo vado al frantoio per trasformare i frutti in sette miseri chili d’olio.

Ieri, primo giorno dell’ultimo mese dell’anno, son tornato sul campo.

Volevo esplorare il luogo di battaglia del prossimo inverno. Dopo aver vinto la sfida con i rovi nello “spiazzo dei sei olivi” ho deciso di riprovarci. Questa volta dal prossimo gennaio e fino allo sterminio completo e definitivo delle macchie e delle erbacce tutte. Mi armerò di idonee attrezzature e darò battaglia in campo aperto. L’esplorazione è servita a stabilire l’entità e la consistenza del nemico e ad elaborare un primo abbozzo di piano. E vediamo chi la vince.

Durante il sopraluogo ho catturato immagini e disegnato alberi e arbusti.

Era una giornata bellissima. Come lo sono quelle prima di Natale quando il sole riscalda ancora un poco e il celeste del cielo è insudiciato solo dalle scie dei voli “ai diecimila”. Perfetta per le riprese. Per le immagini mi son servito del prescritto telefono mobile in dotazione agli esploratori non professionisti. Ho girato due filmati: un video dall’alto salendo sulla querce a confine col vicino e l’altro a terra in movimento mentre gironzolavo, con nonchalance, tra le piante. Poi ho scattato molteplici fotografie da lontano e ravvicinate. Alla fine sono salito sopra all’olivo grande per disegnare rami, foglie e frutti. Saranno state le quattro e mezzo del pomeriggio e il disco ambrato si preparava a lasciar posto alla sorella. Avevo appena finito il riquadro della cornice quando mi sono accorto di un fatto. Una roba che mi ha fatto restare di stucco per la sua profondità. Un particolare che non mi aveva mai colpito nei decenni precedenti.

Evidentemente sono rincitrullito e anche prima lo ero.

Anche quando ho avuto incontri ravvicinati con le olive in situazione dovute a ricerche o progetti. Dove quel particolare non doveva sfuggire. Ne ricordo due in particolare. Dodici anni fa con i ragazzi dell’Università organizzammo il Corso di allestimento progettando il museo dell’olio e del territorio a Pergine Valdarno. Un impegno che iniziò al tempo della raccolta e terminò con l’esposizione dei progetti con tanto di convegno sull’ambiente nella sala del Consiglio. Un laboratorio lungo un anno che fruttò soddisfazione per tutti e una ricca merenda cena per le strade del paese. Entusiasmante. Il secondo è un progetto di grafica per i cento anni dell’olio Carli. L’etichetta finì nel gruppo dei finalisti senza correre per la medaglia d’oro. Alcuni mesi dopo la fine delle ostilità concorsuali  si presentò alla porta di casa un signore vestito di verde appena sceso da un furgone dello stesso colore. Tutti e due di tonalità “oliva”. La cassa verde che lo accompagnava conteneva tre bottiglie indovinate di cosa. E anche in quel caso mi son perso il dettaglio dei dettagli che espongo adesso.

C’avete fatto caso?

Che; come: i fidanzati al primo mese, i conducenti dei Flixbus, i gemelli da polsino, i carabinieri delle barzellette, la mamma e il piccino in allatto, Coppi e Bartali al Tour, le ciliegie pendenti, lo gnomo e la gnoma, Daphne e Josephine nel treno per Miami, quelli che festeggiano quelle d’oro, il gigante e la bambina, Giuseppe e Maria …

… Anche le olive di regola vanno di coppia.

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