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Cicogna, piazza Santa Lucia, 2018 |
In piazza | 2010
“… La
messa è finita … andate in pace”, termina don Gaspare disegnando per aria
il segno della croce. “… Amen”,
rispondono i fedeli copiando il parroco e toccandosi con la mano destra
nell’ordine: fronte, pancia, spalla sinistra, spalla destra e petto. Una croce
disegnata dai quattro vertici e dall’
incrocio delle due linee. I rintocchi della campanella vicino alla sagrestia
segnalano che l’officiante rientra alla base. I partecipanti alla messa delle
nove dopo cena si avviano verso l’uscita mentre i chierichetti si affrettano a
spengere le candele e rimettere i paramenti d’ordinanza.
E io con loro.
Sono uno dei
quattro sagrestani e finalmente ho finito il turno di servizio settimanale
accanto al prete. Stasera è l’ultimo sabato del mese di Maria e domattina si
dorme fino alle nove che la scuola è chiusa.
Stasera si può
stare fuori almeno fino alle undici.
Stasera si gioca
a nascondino. A Parigi c’è fermento. Maggio 1968. A Parigi è cominciata
la rivoluzione. Noi ragazzi di campagna; dieci anni o giù di li; se ne ha appena notizia guardando di sfuggita
la televisione in bianco e nero che troneggia in fondo alla stanza della
dottrina. La stanza ha il pavimento di graniglia 20 per 20 colore bianco e
nero. Le antiche pareti sono intonacate a calce, dipinte di bianco latte e
scrostate dall’umidità di risalita. Si sta seduti sopra seggiole di legno messe
su quattro file di cinque l’una. Ma stasera niente televisione.
Stasera si
gioca.
Le mamme si sono
già avviate verso le panchine del giardino pubblico a chiacchierare del più e
del meno. Stasera l’argomento principale è il matrimonio della Cesira che
domani si sposa. E del suo promesso Giovanni; il bello del paese; che si è fatto per l’occasione il vestito di
seta bianca e le scarpe anche. I babbi invece si fermano al bar di Elio.
La bottega in
piazza davanti alla chiesa è una specie di
“store”.
Il negozio è
sempre aperto visto che i gestori abitano le stanze sopra al locale pubblico e
dormono poco. Elio e la sua famiglia di notte riposano ai piani superiori in
quella che; ma l’ho scoperto dopo al tempo degli studi universitari; un tempo
era la torre d’angolo del recinto del castello. In barba ai normali orari
commerciali si apre alle sette del mattino e si chiude; asseconda delle
stagioni e dei giorni della settimana; verso le undici o le dodici della notte.
Certe volte; durante la buona stagione; gli avventori si fermano in piazza
anche dopo che il padrone del bazar ha tirato giù la serranda. Si fermano a
raccontarsi dei problemi del lavoro e anche a ridere e scherzare.
Si ragiona di
sport e di caccia.
Delle volte
qualcuno si reca nell’orto di casa e condivide con gli astanti cocomeri o
ciliegie e anche pesche. Basta un coltellino; che il babbo ha sempre in tasca;
e il banchetto notturno ha inizio.
Altre volte gli
occupanti dello spazio pubblico fanno a chi la spara più grossa. C’è “il Berto pescatore” che racconta di
quella volta che un luccio, giù alla diga, si era pappato la sua preda; di
regola è sempre una carpa a specchio; proprio nel mentre il filo della canna si
era teso e il bottino era stato la testa del pesce. Oppure c’è “il Gino cacciatore” che narra della
caccia nella riserva del Conte. Di quella volta che con una doppietta ha preso
tre fagiani. E anche c’è “il Cerini
bombarda”; che di mestiere fa il cuoco e in genere arriva verso le
ventitre; che descrive le prestazioni della sua nuova motocicletta. Tutta
gialla e cromata. Con il serbatoio affusolato e il manubrio da corsa. Rivela
che la sua Laverda 750 essepiquerre
arriva alla fantastica velocità di duecento barra duecentoventi chilometri
all’ora. E riferisce che proprio ieri scendendo la discesa delle “Gangherete” ha dato troppo gas e la
ruota davanti si è impennata come un cavallo imbizzarrito. Poi c’è “il Cardino calciatore” che dà notizia
della sua ultima impresa sportiva. Domenica scorsa ha scartato tutti i dieci
avversari più il portiere; meglio del Chiarugi viola; ed ha fatto venir giù lo
stadio.
E tutti
immancabilmente fanno: “ … bum …”
Ma sotto voce
che siamo davanti alla casa del Signore e di lato al monastero delle suore
Paoline. La bottega è l’unico negozio del paese. A dire tutta la verità c’è in
piazza un modesto fondo rialzato di scalini tre rispetto al lastricato.
All’unica stanza di cui è composta l’unità immobiliare si accede tramite una
porta di legno dipinto di grigio topo.
Dentro c’è
l’attività “del Gali”, macellaio
condotto.
La rivendita di
carne apre il pomeriggio del giovedì e del sabato dalle quattro alle otto e la
domenica mattina dalle otto alle tredici. Il negozio è rivendita e non macello
per via che l’oggetto del commercio arriva con l’automobile, sosta giusto il
tempo occorrente sopra un bancone di marmo bianco e ritorna a casa sua.
L’invenduto ritorna alla città perché il locale è mancante; leggi frigorifero;
del necessario per la conservazione. La domenica dopo la messa il gestore,
prima di girare l’ultima mandata dell’uscio, attende il parroco che ha appena
svestito i panni sacri e corre a comprare l’immancabile salsiccia fresca del
pranzo domenicale.
Ho un ricordo
fantastico dei pomeriggi del sabato dopo la funzione delle diciotto.
Quando il babbo
mi conduceva all’acquisto della scorta di carne per la settimana. Mica molta
roba che tanto c’è sempre il pollaio e la gabbia dei conigli. Un involto di
carne per il bollito (… lesso si dice dalle nostre parti … ndr), qualche
fettina di vitello e un paio d’etti di cervellino per i ragazzi piccini, tre o
quattro bistecchine di maiale e poco altro ancora.
E poi il piatto
forte.
Quello per cui
ringrazio il buon Dio per essere nato in questa parte di Toscana. Le fettine,
ma fini come ostie, di filetto della Chiana da fare a carpaccio. Il carpaccio
si mangia a cena il giorno prima della festa. La preparazione è semplicissima e
quasi un rito. Svoltare il pacchetto; riporre le fettine sopra un vassoio di
coccio con disposizione a raggiera; sale e pepe quanto basta; olio d’oliva
nostrale e succo di limone spremuto al momento. Basta. Pane scipito affettato a
fette alte e via a tavola.
Un paradiso per
il palato se mi perdonate la parola palato.
“… Fa ‘i panico… “ azzarderebbe oggi
Guido in linea con le definizioni strampalate di questo secolo. Perdindirindina
… mi son scordato dell’ortolano
viaggiante. “Il Giovannino”; emigrato
dalla Basilicata appena dopo la guerra; capita in piazza tre volte la
settimana. Sempre la mattina verso le undici e mezzo. Arriva preceduto dalle
musichette, registrate su un vecchio “geloso”,
dell’ultimo festival di San Remo.
Le canzoncine
sono diffuse da un altoparlante a trombetta.
L’alta fedeltà è
naturalmente opzionale anzi forse manco esisteva, per noi, la parola hi-fi.
Arriva e se esce; con parole in dialetto stretto che mai son riuscito a
riprodurre e quindi le traduco nella lingua di Dante: “ … venite donne … venite … c’è l’ortolano … frutta fresca … primizie e
verdura di stagione … venite donne … venite che è arrivato Giovannino … “ e
via di seguito. Il furgoncino verde pisello sosta in piazza e le massaie si
affrettano leste alla compera e agli immancabili pettegolezzi. Ma anche il buon
venditore di primizie, come il macellaio, non si arricchisce più di tanto. Ogni
famiglia del borgo ha l’orto e il pollaio e qualcuno anche il campo di olivi o
la vigna.
Il paese, quasi
che si fosse ancora al tempo del castello fortificato, è autonomo.
Ci sono anche
tre forni e altrettante fornaie improvvisate che, tre volte a settimana,
cuociono le forme di pane da due chili preparate dalle nonne. Il più antico di
questi da pure il nome a un viuzzo accanto alla piazza: “ … il Fornino”. E dopo il pane la cupola di mattoni accoglie
volentieri la pentola di terracotta dei fagioli zolfini. Anche quest’attività,
come le altre, non aumenta il numero degli esercizi commerciali della frazione.
Uno era tre
pagine fa e uno rimane.
L’emporio è
alimentari e bar e mescita e osteria. E’ Sali e tabacchi e ci si trovano anche
francobolli e buste da lettere. C’è il telefono pubblico e la cassetta della
posta incassata accanto alla porta di ingresso. C’è il frigo congelatore per i
gelati sciolti e legati. Gli scolari sanno che ci possono acquistare quaderni e
penne e pennini e inchiostro e carta carbone. Ci sono le mitiche bottiglie
della birra dell’omino baffuto (… noi le definivamo birrini … ndr) e la
coca-cola; gli alcolici normali e quelli super; la spuma bionda e la gazzosa
trasparente. Sul bancone ci sono le paste alla crema che, il sabato pomeriggio,
il fornaio ci fa trovare fresche e
appena fatte. Talmente invitanti che paiono dire: “ … mangiami … mangiami”. In fondo al banco, vicino alla cassa, c’è
pure la macchina a vapore per il caffè. Stasera la macchina è bella calda che
si prevede di servire diverse bevande calde. La bottega ha licenza anche per
servire da mangiare e qualche operaio di passaggio ne approfitta con piacere. E’
leggendaria, tra i lavoratori dell’azienda elettrica, la pasta fatta a mano e
condita con il sugo di carne della Maddalena. All’emporio ci trovi di tutto:
stringhe per le scarpe e spago per legare l’arista e anche, se ordini per
tempo, il fazzoletto copricapo per le mamme che pregano nella casa del Signore.
Fuori, appena prima dell’ingresso, si trova anche la pompa della benzina;
normale e super; per le automobili: cinque e seicento, millecento, otto e
cinquanta e altri numeri di fabbricazione nazionale. Il distributore serve
anche la miscela, di solito al due x cento, per le vespe, le api, le lambrette
e i motorini a due tempi. Dietro la bottega c’è la cucina di famiglia con la
grande tavola di legno di quercia. La tavola, durante le sere invernali, diventa
bisca per i grandi. La stanza sul dietro ha una porta che resta chiusa per noi
ragazzi durante il gioco delle carte.
Ma stasera i
capifamiglia e i fratelli grandi stanno in piazza.
A giocare e bere
e scherzare. I giochi di carte praticati nella bisca di piazza sono i più
diversi. E normalmente sono improntati ad un sano passatempo. Nel senso che le
puntate sono bassissime. Di solito si mette in palio una spuma oppure una birra
o anche un caffè. Durante l’estate il premio più gettonato è il gelato in tutte
le sue declinazioni quando è confezionato: cornetto alla crema, sorbetto al
limone, coppa al caffè, granulato al cioccolato e quanto altro. Il gelato può
essere servito anche sciolto nel cono. E via con i gusti della casa:
stracciatella, banana, menta, limone, vaniglia, amarena, pistacchio (… questo
molto amato all’epoca dai ragazzi della piazza … ndr). I giochi di carte
maggiormente praticati sono: briscola e ventuno, scopa e scala quaranta, ramino
e bestia.
La bestia è un
svago molto amato anche da noi ragazzi.
Durante i lunghi
pomeriggi estivi si gioca all’ombra del portico davanti alla sala del cinema
della parrocchia. Le puntate dell’azzardo sono giornalini o palline dei
ciclisti. Altre volte si mettono in palio le figurine dei calciatori. Quelle da
attaccare con la coccoina sull’album della Panini. Le figurine sono messe a
posta anche nel gioco “del Murino”.
Quest’attività
si può fare in tanti.
Basta un muro e
delle figurine e un posto senza vento. Si posiziona la cartina sopra
all’intonaco a circa settanta centimetri dal pavimento e la si lascia cadere. Il
foglietto fluttua pian piano a terra. Il giocatore successivo ripete il gesto
cercando di far pervenire la sua carta sopra a quella a terra. Se la tocca è
sua. E via di seguito. Il divertimento si gioca nell’angolo in fondo alla
piazza dove c’è ombra e non c’è vento. La piazza ha una forma ad “elle” frutto
di una figura quadrata con l’aggiunta di un rettangolo corto.
Lo spiazzo è
lastricato con le pietre grigie della cava del Pratomagno.
Lo spazio
pubblico è lambito su un lato dall’unica strada del paese. La via costeggia la
chiesa e tutto il fabbricato della curia dove ci sono: la stanza della
dottrina, la casa del prete, il cinema parrocchiale, i locali dell’associazione
cattolica e il garage della Mini minor
del sant’uomo. Sulla piazza siedono; in ordine sparso: la bottega e la
macelleria, alcuni fondi adibiti a cantina, le case in affitto dei più
squattrinati, la fontana pubblica e il monastero delle monache. La piazza, in
notturna, è illuminata da tre fiochi lampioncini a sbraccio con lampade da
trecento watt a luce giallognola. Il villaggio è dotato di tre televisori
privati oltre a quello pubblico che sta nella stanza del catechismo.
La mia famiglia
ne ha ordinato uno appena ieri sera.
Il nostro è di
fabbricazione tedesca e non vedo l’ora che arrivi visto che tra poco meno di un
mese cominciano gli europei di calcio e Gigi Riva sarà di sicuro un
protagonista.
Ma stasera si
sta in piazza.
E’ sabato e la
piazza ha il selciato occupato da una diecina di tavolini e da trentatre sedie.
I tavolini sono quadrati. Alcuni di legno e altri con quattro esili gambe di
metallo cromato e il piano di formica colore verdino. Le sedute sono in gran
parte a stecche di legno e ripiegabili per essere riposte nella vicina cantina.
Cinque o sei; le più ambite; sono di acciaio cromato rivestite di fili di
plastica di diversi colori. Queste hanno i braccioli e quindi i grandi le
definiscono poltroncine. Non di rado sento la richiesta del babbo che mi
chiama: “… nini … per piacere … prendimi
quella rossa”. E io lo faccio con piacere che so per certo che la paga è
succulenta e gustosa. Stecco alla banana. Il mio preferito.
Ma stasera si
gioca.
Si smettono i
panni da pretino e ci mette in borghese. calzoni corti sopra; molto sopra; il
ginocchio, maglina a maniche corte e scarpine da ginnastica con le stringhe.
Stasera si gioca a nascondino. Durante il giorno la piazza è nostra proprietà.
I grandi sono al lavoro e le lastre di pietra macigno sono nostre. Ci si gioca
a “scappa Girolamo”. Il marciapiede
davanti alla bottega è la casa di Girolamo. Prima si fa la conta per assegnare
l’incombenza. Quando Girolamo sta sul marciapiede è protetto. E’ il capo della
piazza. Quando esce dalla casa deve zampettare su una sola gamba e recitare il
mantra: “… scappa Girolamo …”. Lo scopo del balocco è catturare quante più
ragazzi possibile. La cattura avviene saltellando in piazza e cercando di
toccare gli amici che possono correre sui due piedi. La cattura è difficile. I
monelli ti stanno intorno e ti canzonano certi che non potrai acchiapparli
perché loro possono scartare e galoppare mentre tu ti puoi solo lanciare
saltellando su un piede. E quando ti scagli verso la preda poggi,
inevitabilmente, anche l’altro piede per terra.
E allora giù
botte sulla schiena di Girolamo che cerca rifugio in casa.
Dopo diversi
tentativi e altrettante pacche finalmente Girolamo riesce a fare un prigioniero
che corre con lui verso il marciapiede. Adesso sono due. Adesso posso uscire e
provare l’accerchiamento di uno degli amici. “… scappa Girolamo … insieme al suo aiutante”. I due serrano in un
angolo uno dei canzonatori e lo catturano. Segue la fuga verso la casa tra un
nugolo di colpi e percosse.
Ma adesso sono
in tre.
Il divertimento
continua fino alla completa cattura degli avversari. Ai miei figlioli questo
gioco non interessa più. Ho provato a giocarlo con loro e i di loro amici fino
a pochi anni or sono e devo dire che si divertivano assai. Adesso però sono
occupati con gli aggeggi elettronici che la fanno da padrone in casa nostra e
che hanno tutti nomi stranieri: Playstation e Wii, Ipod e Keycard, Psp e Iphone
e via e via.
Ma torniamo
all’ultimo sabato del mese Mariano del sessantotto del secolo scorso.
Torniamo a
giocare a Nascondino. La base; noi la si chiamava cuccia; è accanto alla
fontanella di ghisa in fondo alla piazza. La conta serve a individuare a chi tocca “cucciare”. Si conta fino a cento con la testa appoggiata alla
colonna. Anzi stasera è toccato a me. Conto veloce da uno a novantasette e poi
a voce alta computo: “ … novantotto …
novantanove … cento … vengo … vengo e vengo”. Comincia la caccia. Il campo
di gara si estende su tutta la piazza e per le buie viuzze limitrofe. Dalle
nostre parti le lucciole arrivano gli ultimi giorni del mese del grano. Per
fortuna stasera la luna è bella piena e allora il terreno di gioco si
ingrandisce fino all’orto del prete e al campo degli ulivacci. Non ho mai
capito il perché di quel toponimo visto che gli ulivi declinati non ci sono
mica per niente. La luce del satellite guida
i passi dei ragazzi che si nascondono al buio dietro il ciliegio o nelle
vicinanze della pozza delle rane. Io comincio a cercare i compagni di avventura
che, quando si gioca, smettono i nomi di battesimo e mettono i soprannomi.
Inizio dalla
piazza.
E non vedo
nessuno. Poi improvvisamente una figura lesta e veloce spunta da sotto un tavolino e si dirige, prima di me, verso
la base. E’ “il Lisca” che tocca il
muro e si salva. Io mi inoltro nelle viuzze vicino allo spiazzo lastricato.
Giro l’angolo e sento un rumore di passi in movimento dietro di me. Dalla pompa
della benzina se ne escono due fulmini. Sono “il Rando” e “il Roscio”che
si lanciano verso la fontana. Rinuncio alla corsa che tanto son lontani. Altri
due che si salvano. Continuo la ricerca degli altri. Adesso mi avvio verso la
parte veramente al buio.
Verso i campi.
Scendo la
discesa che porta al ponte e al viottolo che conduce all’orto. Mi pare di
scorgere un ombra dietro alla siepe vicino alla vasca delle anatre. Mi avvicino
per controllare e altre due ombre spuntano da sotto l’arcata di pietra. “il Taccone” e “il Cavallo” si inerpicano rapidamente sulla salita. E io con loro.
Stavolta li acchiappo. E mentre ansimo faccio: “… Cavallo e Taccone … visti”. Ma loro sono davanti a me. E sono
anche più veloci. Arrivano prima loro. Mentre entro in piazza scorgo una figura
dietro di me. E’ “il Frenchi”che
scende dalle scalette del cinema parrocchiale. Mi giro e faccio: “ … Frenchi … visto … e preso…” mentre
tocco l’intonaco.
Adesso ne manca
solo uno.
Mio fratello
minore. Andrea detto “il Gatto”.
Questo lo piglio di sicuro. Ritorno sui miei passi verso la siepe dove c’era
l’ombra. Che ne frattempo si è spostata e riposta dietro l’angolo della torre
del monastero. Ma io ignaro vado sicuro verso l’orto. Mi inoltro fra i pomodori
e le zucche e mi accosto al fogliame. Frugo tra l’alloro e l’albero delle mele.
Ma non trovo nessuna forma che assomigli a un ragazzino di anni sei e qualche
mese. Intanto, a mia insaputa, gli altri partecipanti guidano i passi del
rifugiato. E li guidano talmente bene che a certo punto lui è in una posizione
migliore della mia.
E loro urlano: “… vai … vai …”.
E lui esce dal
nascondiglio e scappa verso la base. Io mi trovo dietro di lui e mi metto in
corsa. Son più grande di quasi quattro anni ma lui è veloce. Veloce più di me
che mi chiamano (… o vediamo se scoprite il perché … ndr) “il Ciccio”. E di solito qui scatta l’odiosa filastrocca che mi ha
accompagnato per gran parte dell’adolescenza: “…Ciccio bomba cannoniere … fu promosso trombettiere … la trombetta un
funzionò … Ciccio bomba scoreggiò”. Ma adesso non ho tempo per le
filastrocche. Mi fiondo a pesce sul sentiero che conduce in piazza.
Gli sono vicino.
E strillo: “… Gatto … visto … ora ti prendo …”.
Dall’orto buio al piazzale illuminato saranno settanta metri o giù di li. Ma
sono in salita e io son sovrappeso. Mentre lui è secco e scattante. Non ce la
faccio. Arrivo al pilastro che funge da casa base proprio mentre il fuggitivo
fa: “… bomba … bomba liberi tutti …”.
Tocca di nuovo a
me a fare il cacciatore e a loro a far le lepri.
Sconsolato e
depresso mi accingo a rifare la conta e ripetere tutto l’ambaradan del gioco.
Capo appoggiato alla parete … conta fino
a cento … vengo … vengo … e vengo … e iniziare la ricerca. E questo è il
bello dei giochi che si facevano da ragazzi. Erano interminabili. Non finivano
mai. La fine era semmai dettata dalla stanchezza dei partecipanti.
Oppure dalle
urla dei genitori che chiamavano per cena o per andare a letto.
E stasera dalla
depressione mi salva il babbo che mi fa:
“ … o nini … che me lo fai un piacere?”. E mentre faccio di si col capo
sento ancora le sue parole rivolte alla locandiera: “… Marcella … fammi un caffè … che me lo porta Ciccio”. E lei: “… mi dispiace … ma si è rotta la macchina
a vapore … la vuoi una spuma al cedro?”. E lui: “… no … no … voglio il caffè che ho appena vinto a tresette … fammelo
con la macchinetta di alluminio … fammelo buono … fammelo con la moka … quella
dell’omino coi baffi”.
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