Lettori fissi

28/08/20

Diploma


 

Diploma | 2019

 

Il titolo dello stampato è quanto mai prolisso.

 

scuola  internazionale scheidegger per la preparazione professionale commerciale”. Come di regola è posizionato in alto centrato poco sotto il logo “SIS” acronimo delle tre prime parole.  Ancora a scendere si trova la scritta “DIPLOMA”; stesso carattere Bodoni ma formato extralarge altezza circa centimetri tre. Trattasi di cartoncino, fondo giallino spento, formato A4 verticale munito di regolare doppia cornice geometrica a raffigurare una specie di quadretto. Il foglio tipografico racconta che il signor “Pinco Pallino ha partecipato al corso eccetera con il voto eccetera in data eccetera”. In basso a destra il marchio grafico: uno scudetto con tre gigli sovrastato da un cappello a cilindro e contornato da fogliame di varia natura e provenienza. In basso a sinistra qualifica e firma del direttore e dirigente.

 

La data mi trasporta al mese degli esami.

 

L’ottobre precedente; spronati da quelle rompi delle nostre mamme; “io, col mio amico 'Culo di gomma', famoso meccanico,” (ndr. Francesco De Gregori, Buffalo Bill, 1976) ci facemmo coinvolgere nel corso di dattilografia per via che “… dammi retta Nini … quando ti dovrai proporre per un impiego …  è di sicuro meglio un diplomato geometra che sa anche scrivere a macchina di quello che non sa!” Entrambe ci convinsero quindi a iscriverci e soprattutto frequentare la scuola.

 

Che non fu uno scherzo.

 

Era l’anno della maturità e anche i menefreghisti come noi un poco di strizza l’avevano. La sede delle lezioni era situata nel fondovalle al piano terreno di un anonimo locale riattato per l’occasione. Dalle nostre case quel posto distava buoni quindici chilometri. Che dovevamo percorrere col motorino la sera dopo il tramonto. Ci accompagnava un capiente zaino verde militare con dentro gli aggeggi del mestiere. Per catturare anche gli studenti lavoratori la lezione settimanale si svolgeva il martedì dalle diciannove per novanta minuti e anche oltre. E in sovra più il corso si svolse durante l’inverno con tutti gli agenti atmosferici collegati.

 

In vespa col parabrezza e l’incerata gialla.

 

Nel costo base del corso era compreso il comodato d’uso di una macchina da scrivere portatile, color giallino diploma, marcata col nome della scuola. Il tagliando adesivo copriva il vero marchio di produzione riconducibile a nota industria con sede ad Ivrea. La particolarità di quello strumento erano i coperchi di plastica colorati posti sopra alle lettere.  A fine corso potevamo poi riscattare la portatile ad un prezzo da usato.

 

Per mio conto avevo già scelto: Lettera 22 tutta la vita.

 

Rammento i mesi invernali passati ad esercitare mani e testa su tastiera e manuale. La scrivania che avevo in camera era progettata per leggere libri e non per pestar tasti. I quindici centimetri di altezza in più furono annullati da tre cuscini appositamente realizzati dalla massaia. Godendo quindi della postura ottimale mi potei concentrare su precisione e velocità. Memorizzai e tasti nascosti dalle capsule colorate e via con le dieci dita. Con costanza mi applicavo tutte le sere dopo cena fino a riempire una cartella piena di errori, cancellature e correzioni. Il foglio pareva un campo minato con le bombe appena scoppiate.

 

La battaglia si protrasse per i cinque mesi a seguire.

 

Poi se Dio volle terminò. Non per volontà degli alunni quanto per il fatto che c’era da sostenere l’esame di primo livello del perfetto dattilografo. I mesi precedenti ci eravamo organizzati in coppie con serrate sessioni di lavoro nei pomeriggi dei giorni di festa. Eravamo un poco migliorati nella precisione ma la velocità lasciava ancora a desiderare. Tra i venti studenti del corso alle simulazioni d’esame ci piazzavamo tra la terza e la quarta cinquina partendo dall’alto.

 

E da li non ci schiodammo.

 

La prova d’esame fu quanto mai comica per via che ad un certo punto si guastò una delle macchine e anche la sostituta si inceppava in continuo. Colui il quale toccò in sorte tutto questo ambaradan fu omaggiato del quarto d’ora in più. Il tapino; che in verità batteva i tasti come un Hemingway fortemente ubriaco; s’incazzo notevolmente millantando presunte conoscenze in alto loco. In realtà era solo il nipote del padrone del fondo ma comunque il suo esame finì con un  bel terzo posto di sicuro telecomandato. Per decenza, imbarazzo e pudore non lascio scritto ai posteri la mia posizione ma solo quella del mio amico  sapendo che: 1) ero dietro di tre, 2) tra noi c’era un operaio che aveva perso il mignolo sotto ad una pressa, 3) il compagno aveva il numero diciassette, 4) subito dopo il lavoratore c’era una massaia che spesso la sera marinava la lezione per doveri di famiglia.

 

Comunque sia alla fine ci fu la consegna dei diplomi

 

Alla cerimonia, sapientemente organizzata per iniziare alle 18:30 e terminare entro le 19:00 per potersi mettere in fila davanti al Masaccio dove usciva il primo Guerre stellari, parteciparono anche le mamme, che si tirarono dietro i rispettivi coniugi, convinte di fare una bella figura coi loro pargoli provetti dattilografi. Non è disagevole immaginarsi le loro facce alla chiamata in ordine crescente.

 

Il primo e il quarto … zum … zum zum zum … zum zum!

 

Mentre il direttore consegnava il resto degli attestati un botto s’impose sopra ai rumori di fondo della stanza: il tappo di una dozzinale bottiglia di moscato sbatté sul soffitto e carambolò perfidamente sulla coppa delle fragole con panna rimbalzando infine sulla minigonna della più bella e brava del corso che infatti attendeva sicura la chiamata per il diploma in pergamena. La bionda, poco prima perfettamente truccata, agguantò l’attestato e se n’uscì in lacrime seguita da quell’energumeno del suo fidanzato che promise, al prossimo incontro, “tuoni fulmini e saette” al povero amico mio.

 

Questo fu il mio primo serio incontro-scontro con caratteri, grafica ed editoria.

 

L’estate a seguire, sull’onda del successo conseguito, mi proposi presso un tipografo conoscente per disegnare certi marchi e disegni per alcune aziende della zona che si avvalevano dei suoi servigi. Malamente ne disegnai alcuni che furono, con discrezione, rifiutati. Poi un pomeriggio mi chiamò l’assistente dello stampatore per un incarico sicuro. C’era da disegnare; “… a mano … il cliente lo vuole a mano” disse; la facciata di un capannone incastrato tra altri capannoni nella zona industriale li vicino. E siccome le fabbriche erano tutte uguali e appiccicate come tante case a schiera. “Il bravo illustratore grafico; il tipografo usò proprio queste identiche parole riprendendo il filo del discorso; deve essere in grado di far risaltare la facciata in questione rispetto alle identiche altre”.

 

Con ciò mi consegnò un biglietto con l’indirizzo e una pacca sulle spalle.

 

C’andai con la vespa il giorno dopo. Avevo ordine di non prendere contatti con gli operai e neanche con impiegati o dirigenti. Dovevo lavorare “en plein air”. E così feci. Piazzai la motoretta sul marciapiede di fronte e usai la sella come un instabile piano d’appoggio per il blocco degli schizzi. Chi mi conosce sa anche che son legnoso e approssimativo quando disegno a mano. In verità anche quando disegno con la squadra. Non sono insomma quello che si dice un mago del disegno come ne conoscevo e conosco.

 

Tuttavia, dopo un intero blocco di disegni, uno pareva presentabile.

 

Aiutato da alcune polaroid lo terminai al tavolo di cucina e il giorno dopo lo consegnai fiducioso al committente. Dalla smorfia con cui accolse la vista dell’immagine  compresi che non tutto sarebbe andato liscio. Infatti ci dovetti lavorare per tutta la settimana con versioni differenti: a filo di ferro in bianco e nero, a pastelli a colori con le ombre e via e via. Poi alla fine; con l’idea di presentarle tutte e far scegliere al direttore dell’opificio; le accettò tutte e mi pagò il prezzo stabilito. Una miseria per il tempo impiegato

 

Non so se sia mai è stato usato alcun mio disegno.

 

Quello che posso dire è che anni dopo, incrociando ricordi, articoli e immagini, ho realizzato di aver disegnato, con la percentuale di errore dell’uno per cento, la facciata della sede della fabbrica di accessori in vera pelle diventata da li a dopo uno dei marchi mondiali della moda.

 

Bastano due parole per la ricerca in rete: luna e regata.

20/08/20

1 di noi

 

1 di noi | 2011

Artigiano

chi esercita il mestiere

con particolare maestria

Dizionario della Lingua Italiana

Sabatini Coletti, 2011

 

Ossessione.

 

Ce l’ha BB per tutte le discipline dell’arte. Come un artigiano dei tempi andati si interessa di tutto quanto le sta intorno. Pittura e scultura, disegno e grafica, letteratura e stampa, storia e anche architettura. Usa con destrezza le tecnologie del contemporaneo e ama la grafite che graffia la carta. Frequenta con accesa curiosità tutta una serie cultori di queste materie. In gioventù si reca nelle loro botteghe a imparar il mestiere.

 

E ne ha giovamento.

 

Ha, come si dice in gergo, una mano splendida e felice. Se provo un raffronto con la mia (ruvida e legnosa … ndr) è meglio che mi rifugi nel sottoscala a ripassare l’alfabeto dell’arte. Poi piglia la licenza per trasformare il territorio e si fa architetto. Un professionista di provincia sempre attento all’estetica delle cose e all’etica del mestiere. Di queste robe se ne ragiona spesso e sempre con molto calore.

 

Sono i suoi aghi ficcati nel cervello.

 

Lo conosco e ci frequentiamo da almeno un quarto di secolo ma non conoscevo l’opera che voglio raccontare. Si tratta di un tavolo con alcune sedie disegnate circa venticinque anni or sono per non so quale camera del lavoro. Le ho viste recapitare l’anno passato, da non so quale corriere, direttamente nella casa degli architetti.

Mi cimento al resoconto munito del maledetto affare di metallo e silicio e cristalli liquidi; di quelli che catturano anche le immagini; della penna Pilot nera zero punto cinque e del quadernetto d’ appunti che ho sempre in tasca .

 

Le misure le piglio con il corpo.

 

L’ho imparato diversi anni fa al tempo degli studi di disegno e rilievo. Da terra all’ombelico misuro centimetri novantanove, il palmo esteso misura ventuno, le spalle fanno cinquantadue, un piede scalzo son venticinque, il pollice arriva a tre, un passo lungo fa novantanove, e via di seguito. Non sarà scientifico ma chi se ne frega. Mi stiro i muscoli ed allungo le membra. Son pronto.

 

Comincio il rilievo.

 

Le proporzioni dei due oggetti discendono dalla geometria del quadrato. Son parimenti due i materiali adoprati. Legno massello per i piani e acciaio saldato per le strutture. A tutto spessore senza trucchi né inganni. Solo materiali ignudi e crudi. Senza tubolari e manco impiallacciature. Da buon rilevatore comincio da quello più grande e per primo disegno il piano.

Mi occorrono quattro palmi precisi. Da terra alla sommità ci vogliono gli stessi numeri. La struttura portante è costruita da tre lamiere saldate a formare due “ci”, ruotate di novanta gradi centigradi, appoggiate a terra con piedini regolabili per la messa in bolla. I due elementi principali misurano un palmo meno due terzi per un mezzo di pollice di spessore. I due elementi principali sono, in basso, uniti e resi solidali da una “ics” costituita da tondini, diametro mezzo pollice, distanziati da terra di sette centimetri. Il piano di legno di abete rosso (larice per il volgo … ndr) è finito a cera e ingentilito, su due lati, da una scorniciatura a becco di civetta.

 

Lo spessore? Due pollici abbondanti.

 

La sedia propone i medesimi rapporti e materiali. L’ingombro della seduta lo misuro con due palmi più un pollice. Gli stessi che occorrono per l’altezza al culo. Per arrivare in sommità dello schienale basta raddoppiare. Se mi ci accosto con la pancia noto che ci manca un pollice all’ombelico. Gli spessori di tutto l’ambaradam son proporzionati al tavolo e ridotti di circa un terzo.

 

Mi siedo sulla seggiola e mi appoggio al tavolo.

 

Ora mi tocca di far l’analisi critica dei due complementi. Non è nelle mie corde far le bucce ad un amico ma che ci volete far. Questo è il mestiere del recensore. E come un Gesù alle nozze di Cana vi sottopongo per prime le robe difettose. Le strutture di acciaio pieno sono tutte saldate le une alle altre. La sedia è scomoda sia in appoggio che, soprattutto, in seduta. E anche è un pochino troppo spigolosa. Il tavolo è meglio. Anche lui ha però il difetto del peso. Ad occhio saranno una novantina di chili e non vorrei per davvero doverlo trasportar per le scale.

 

Della serie: non tutte le ciambelle vengono col buco.

 

Ora i pregi. I rapporti son veramente interessanti e azzeccati. L’uso dei materiali è preciso e rigoroso. Niente di meno di quanto mi aspetto dal disegnatore che conosco. Il tempo ha lavorato sul legno e lo ha reso ancora più godurioso al tatto. Son convinto che se li potesse aggiornare con le tecnologie contemporanee li farebbe molto più leggeri.

 

In linea con la sua continua voglia di sapere, sperimentare, provare, confrontarsi e rimettersi in gioco. Un vero e proprio moderno architetto condotto. E quando lo rammento mi piace pensarlo al presente.

 

Bruno Benci; uno di noi.

 


13/08/20

Il commissario

 


Il commissario | 2003

                                                                                                                                                         

Il commissario si sveglia di buon ora.

Subito in bagno al lavaggio mattutino. Caffè e sigaretta. Saluto alla famiglia; un bacio a tutti e una carezza a Campione il suo cane da studio.

 

E’ pronto.

 

Quella mattina deve recarsi in Casentino per partecipare alla seduta finale del concorso. Del concorso per la piazza. Della piazza  del vescovo guerriero Tarlati da Bibbiena. Ricorda i consigli dell’informatore: “… dal Valdarno prendi per la strada dei Sette Ponti … poi trovi un paese che si chiama San Giustino … continua ancora fino al bivio che trovi dopo qualche chilometro … girare a sinistra verso il Pratomagno … svoltare  a destra verso la Crocina … trovi poi Talla; sei in Casentino .… prosegui nella valle … strade strette e curve a gomito … vai avanti … sempre avanti … non svoltare fino a quando non trovi un ponte su un grande fiume il cui nome non ricordo … mi pare che sia Arno ma non vorrei sbagliarmi … fai il ponte … svolti a sinistra e continui … sei a Rassina … sei vicino … a un certo punto trovi una specie di gigantesco monolite che si staglia sotto a un monte … assomiglia a certe visioni del Sant’Elia … tutto cemento armato, con ponti aerei e strade ferrate, silos e capannoni … è una fabbrica di cemento … vai ancora dritto … sei quasi arrivato … tra un poco trovi i cartelli per la svolta a destra … stradina tortuosa dentro le case … sei arrivato … parcheggi e fai colazione al bar-pasticceria vicino al Municipio”.

 

Segue alla lettera i consigli dell’amico e durante il viaggio si rilassa insieme alla grande Ella. Non conosce la città e la piazza che deve giudicare e allora decide di arrivare per tempo e di scoprire il paese. Strette viuzze in salita, case a schiera e palazzi tre/cinque/ottocenteschi. Su fino alla cima del colle. Su fino alla piazza.

 

Interessante il luogo e lo spazio.

 

Di forma circa rettangolare allungata con un sette/ottocentesco palazzotto porticato che ingloba un’imponente torre in pietra di trecentesche forme lungo un fronte principale e stradelle che vengono dal basso. Sulla sinistra gode di una vista mozzafiato verso la vallata ed il castello fortificato di Poppi.

Grande.

La piazza sembra da pochi anni risistemata con una civile pavimentazione in bigie lastre di pietra arenaria. Un rettangolo centrale scontorna gli edifici limitrofi. Pare una operazione corretta. Forse ci manca qualcosa … riflette. Forse ci manca una fontana … una statua … una vasca. Forse è per questo che è stato chiamato in giudizio. Forse.

 

Bando alle ciance. Sono le nove. E’ ora.

 

Allora giù verso il palazzo comunale. Dentro il salone delle adunanze. Innumerevoli progetti [disegni e plastici, carte e relazioni, modelli e bozzetti] lo accolgono insieme agli altri giurati [pardon, commissari]. Saranno stati almeno sessanta compreso le persone che saluta: conoscenti e amici; rappresentanti del popolo, operatori economici e tecnici; dirigenti, professori e sindaco.

 

E’ felice; respira l’architettura.

 

E’ la prima volta che si prepara a giudicare. Ha partecipato, prima di allora, ad almeno diciassette/diciotto competizioni progettuali con alterne vicende. Uno/due vinte; due/tre rimborsate; tre/quattro (ma sono molte di più naturalmente) perse.

 

Tutte comunque non realizzate come buona regola italiana.

 

Si informa del perché del concorso e le sue supposizioni trovano conferma. Ella (la piazza) è stata risistemata alcuni anni or sono dalle sapienti mani dell’ufficio lavori pubblici. C’era una fontana/vasca per abbeverare i cavalli. Sotto la piazza si trova ancora un grande deposito voltato e ripieno di accadueo. La vista mozzafiato si gode passeggiando sopra al (brutto) tetto di un edificio costruito negli anni trenta/quaranta. Il palazzo porticato è stato edificato in luogo di un antico palazzo vescovile costruito, pare, dal vescovo Tarlati da cui il nome di battesimo della piazza. In anni recenti è stata approntata una proposta di ri - sistemazione civile dello spazio con una grande vasca/fontana circolare che però non ha ricevuto il gradimento delle statali istituzioni preposte al controllo delle cose storiche – artistiche – architettoniche – e -paesaggistiche della provincia. Allora il concorso ha colto l’occasione per assorbire altre e nuove idee per  sistemazione del pubblico invaso e rivitalizzare così la città.

C’è grande fermento nella gente e nelle istituzioni. Tutto il popolo attende fiducioso di conoscere il progetto “primo premio”. C’è la volontà politica e pare che ci possano essere i quattrini (prima erano lire adesso sono euro ma sempre soldi sono) per costruire.

 

Anche il nostro commissario è fiducioso.

 

Si svoltano le carte; si leggono le relazioni, si osservano i plastici, si toccano i modelli. Si studiano insomma i cinquanta progetti. Si cerca di visualizzare l’architettura. Si apprezzano diverse possibili soluzioni proposte e se ne scartano altre. Si sottolinea la qualità della resa grafica della generalità dei corridori al concorso. Si ammira la pura bellezza di certe rappresentazioni foto-realistiche. Si parla di luoghi e materiali, di paesaggio e città. Si ragiona di architettura; si giudica insomma.

 

La discussione si fa accanita. Rimangono in quindici … poi in dieci.. poi in sette. Siamo vicini alla fine. Pausa caffè e pasticcini.

 

Si riprende. Sono in sette.

 

Rimangono in quattro ma  “… ne rimarrà solo uno …” ; come recitava una grande film; che raccontava un possibile prossimo futuro; di alcuni anni fa.

 

La piazza se la giocano in quattro.

 

Una monumentale ruota d’oro con vasca incorporata e un pavimento concentrico in pietra che, assumendo a riferimento il centro della ruota, si estende indifferentemente in tutti i luoghi del progetto.

Un garbato getto d’acqua che si insegue e si fa inseguire dai bambini che giocano in piazza e non modifica quasi per niente l’assetto planimetrico/morfologico della piazza.

 

Una lunga/stretta vasca rettangolare che contiene ciottoli di fiume, acqua bassa e proiettori luminosi e imposta un minimale sistema di sedute in pietra con luci a raso terra.

 

Una grande fontana/vasca circolare in marmo con luci interne che si colloca sopra al deposito sotterraneo e qualifica il progetto come unico ed isolato elemento rispetto a quello che già è costruito.

 

Vince la ruota. Vince l’arte.

 

Ai posteri il giudizio.

06/08/20

Labor


Labor | 2007

Che cos’è il genio?

E’ fantasia, intuizione,

 colpo d’occhio e

velocità di esecuzione.

Benvenuti, De Bernardi, Pinelli

AMICI MIEI

(Rizzoli, Milano, 1976)

 

Una strada si incunea nella valle.

 

E’ la regionale settantuno del Casentino che passa sopra all’Arno su uno sgraziato ponte in cemento armato. Poco prima del passaggio sul fiume la strada svirgola a destra con una curva che a scuola si chiamava “ad angolo giro”. Ecco. Siamo arrivati al luogo. All’ingresso da sud all’abitato di Capolona. Se si prende a sinistra lungo il fosso Catriolo si possono ammirare i recenti opifici sotto la collina terrazzata.

 

Se si gira per la mano dritta ci si avvia verso il paese.

 

Appena passato il sottopasso della regionale si potrebbe ancora svoltare a destra e capitare in San Martino Sopr’Arno. Oppure proseguire dritti, frisare la villa detta La Nussa, e sbattere   sul muretto di affaccio al fiume. Dopo la retromarcia dell’auto si potrebbe parcheggiare in zona a rischio multa e scendere all’acqua verso l’eco museo ricavato dentro un caseggiato  che un tempo occupava la fabbrica dell’energia. Oppure proseguire lungo la strada che corre parallela al correre dell’acqua ed entrare in paese. Ma noi si parcheggia, poco prima, nello spiazzo sterrato all’angolo con l’antico fortilizio e si scende. Davanti a noi gli orti lungo il fosso. Poco più dietro la fabbrica dismessa che un tempo produceva oggetti di metallo giallo e prezioso.

 

Una terra di confine.

 

Non ancora città e neanche più campagna. L’ingresso al paese da mezzogiorno.

 

 

Il posto del progetto.

 

Il gruppo al lavoro è composto dal docente Alessandro Mendini architetto con sette giovani progettisti coadiuvati da chi scrive in veste di tutore e da Roberto Remi artista.

 

Il metodo adoprato è semplice ed essenziale. Quasi uno standard per questo tipo di interventi da costruire in pochi giorni in luoghi poco conosciuti  dai progettisti. Riunioni di conoscenza del luogo e sopraluoghi diretti. Foto e disegni. Discussioni e prime idee. E poi la scelta. La copertura a “shed” del luogo di lavoro davanti al fosso diventa il simbolo architettonico del progetto. Sulla base di un semplice schema ogni partecipante si occupa principalmente di un pezzo del progetto senza però tralasciare l’immagine totale. Dal particolare al tutto. Con continui aggiustamenti di tiro.

Una sorta di “jam session” dell’architettura.

 

Se ne vengono fuori allora tante proposte per uno stesso tema. C’è chi si occupa dell’organismo funzionale interno con lo studio delle piante e delle sezioni oppure chi disegna l’accesso dalla parte del fosso e il giardino degli olivi. Ancora chi studia la pelle dell’edificio e le tessiture della facciata o invece chi ragiona sul materiale della copertura e sui decori dei pannelli di rivestimento. C’è poi chi  prende in esame il sistema degli arredi urbani con le trame delle pavimentazioni esterne o anche chi si concentra sullo studio del porticato di ingresso all’organismo.

 

L’artista concede preziosi consigli sul colore e sulla percezione

Il docente lega tutto quanto con un immagine unitaria, forte, potente e urbana.

Al tutore il compito di girar per i tavoli ad incoraggiare i progettisti..

 

E poi, siccome non ha niente altro da fare che facilitare il lavoro altrui, si mette in testa di produrre qualcosa. Labor(a) a certe immagini, disegna un logo e scrive una novella. 

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