Tuf(f)o | 2017
Un
tuffo dove l’acqua è più blu niente di più
Eppur
mi son scordato di te
L. Battisti | G. Rapetti, 1970. Esegue:
Formula 3
Oggi fa un caldo
birbone.
Le previsioni
delle sei di mattina avvertivano di quaranta all’ombra ma secondo me i
percepiti adesso, le due del dopo desinare, viaggiano verso i quarantotto come
minimo. Il maledetto cellulare, che ancora mi ostino a chiamare con “mobile” per il fatto che mi pare più
gentile e civile, contiene di sicuro l’applicazione Termometro per misurare la
temperatura e magari anche l’umidità e chissà quante altre diavolerie. Ma col
piffero che mi metto a cercarla.
Ho cose più
importanti da fare.
Devo fissare per
iscritto il resoconto di un’escursione di pochi giorni fa. Forse sarà banale e
di sicuro non interessa a molti ma ho sentore di doverla raccontare. Torno
indietro all’ultima domenica del mese scorso. Anche quel giorno fu da bollino
rosso fuoco. Mi alzai prima dell’alba, molto prima in realtà, in un lago di
sudore. Saranno state le quattro e tutta la casa dormiva. A me pareva di
nuotare in pochi centimetri d’acqua e la sensazione era quantomeno bizzarra.
Intanto mi alzai a sedere sul letto. Poi cacciai le gambe giù verso il buio
alla ricerca delle infradito rosse col bollino del Brasile. Calzatole mi
approssimai al cubicolo igienico e lungamente ne approfittai con la scusa della
lettura dei tre ultimi capitoli dell’ultima indagine del vice questore
Schiavone. Qui si vincevano i cattivi e i buoni restavano nell’angolo in attesa
di tempi migliori.
Comunque sia si
erano fatte le quattro e mezza o poco più.
Mi pare che
possa essere l’ora. Da quando ho smesso di fumare non riesco a carburare se
prima non accendo il televisore e faccio il giro dei canali. Non solo notizie
ma anche documentari e film. Tutto quanto trovo a quell’ora insomma. Ergo
scendo in salotto e attivo la lucina verde del video. Mi sciroppo informazioni
e altro per una buona trentina di minuti e si son fatte le cinque.
E con loro
arrivano i primi sentori dell’alba.
A casa mia il
sole, come in tutto il mondo, spunta ad est. Da me se ne avvertono i primi
barlumi da dietro le colline sotto il Pratomagno. Di solito è una scena molto
bella. Quel giorno, se possibile, lo fu ancora di più. Me la son goduta in
solitaria in compagnia di una macchinetta da tre di caffè. Appena macchiato con latte scremato
e senza zucchero per colpa dell’ennesima dieta che, tanto sono sicuro, non
riuscirò a portare a buon termine. Dallo zaino grigio topo tiro fuori il
quaderno dei disegni e me ne sparo tre o quattro tanto per non perdere la mano.
Da un poco di mesi ho la fissa per un esponente dell’arte povera che lavorava,
tra l’altro, con parole e arazzi. E seguendo quel filo mi entusiasmo non poco a
riempire il mio blocco di frasi a colori.
E poi come sia
si son fatte le cinque e mezza passate.
È l’ora di
passare a lavaggio e pulitura. Lo faccio in pochi minuti e mi vesto anche.
Stamani vado con la bici. Sono anni che non ci risalgo sopra. È stata
parcheggiata in garage per almeno tre inverni e proprio ieri l’ho ripulita e
ingrassata in previsione della scampagnata. Trattasi di ciclo modello mountain
bike, anno millenovecentonovantuno, ditta Atala, peso una cifra. Tutta rossa con
le finiture cromate. Quand’era giovane e anch’io lo ero scheggiavamo anche.
Adesso i chili di troppo e i muscoli assolutamente fuori allenamento si fanno
sentire.
Stamani farò un
giro corto.
Mi metto in
testa che i sette chilometri di quello che
chiamavamo da ragazzi il giro del
Valcello, saranno bastevoli. Anzi
son sicuro come non mai che la Salitona
con pendenze del diciotto barra venti per cento la farò alla pedona. E pensare
che da ragazzi, quando era sterrata, la si faceva in sella a certe bici da
femmina che prendevamo in prestito dalle mamme. Durante il viaggio metto la
retromarcia ai ricordi. Indietro veloce fino alle ultime estati dei sessanta.
A quel tempo la
stagione era completamente libera da scuola e libri.
Dal quindici di
giugno alla fine di settembre ci ritenevamo in perenne libera uscita. Nel senso
che uscivamo la mattina poco dopo le otto e, a meno della prescritta pausa
desinare di un paio d’ore, si tornava a casa alle porte della sera. Ci si
baloccava con poco o niente e qui non conviene ragionarne. Magari lo facciamo
alla prossima. Di sicuro però una delle occupazioni preferite era l’esplorazione
di borri e torrenti, rigagnoli e fossi. Tutt’intorno al paese per un raggio di
alcuni chilometri li perlustravamo tutti.
Gli amici più
grandi ci avevano insegnato il Risecco.
Che in realtà
non è un gioco ma piuttosto una pesca di frodo anche se a quel tempo non lo
sapevo. Il gioco consisteva nel trovare una piccola pozza lungo il torrente.
Poi creare a valle uno sbarramento con sassi e legna e quanto altro. Dopo di
ché, muniti di secchi o sgotti, svuotare la pozza e raccogliere i pesci sul
fondo melmoso. Di solito il bottino toccava ai più svegli che erano, per le
leggi della vita, anche i più bisognosi e il pescato faceva comodo assai. Noi
invece a casa non si mangiava pesce se non acciughe sotto sale, tonno sottolio,
baccalà alla livornese o aringa alla brace.
La sera poi,
fuori della bottega di piazza, erano bombe a più non posso.
Ognuno
raccontava la personale e gonfiata versione dell’impresa con prede che da
alborelle si trasformavano in pesci gatto, lucci e granchi d’acqua dolce con
chele grosse come le mani di Fulvione. Poi, quando arrivava Albertino gli
ordigni diventavano bomboloni. Isso era un discreto pescatore con la mania del
raddoppio. Moltiplicava per due tutto. Quindi i lucci diventavano pescecani, le
anguille erano anaconda e il suo ultimo risecco l’aveva fatto direttamente con
le bombe a mano che gli erano avanzate dal servizio militare. E noi giù a
chiedere spiegazioni e, sotto sotto, a prenderlo per il culo.
Ma il
divertimento più grande era andar per pescaie.
Apro il Vocabolario
della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1968. Alla voce Pescaia copio: “Lavoro di
palizzate, muratura e simile di traverso nel letto di fiume o canale da sponda
a sponda per elevarne il pelo o rivolge l’acqua in altra parte, a mulini e
simili col mezzo di cateratte”. Quelle lungo i nostri corsi d’acqua sono
modeste. Si tratta in genere di due muri, in pietra e mattoni, lungo le sponde
con un trasverso sagomato per contenere il liquido e disegnare una piccola diga
di sopra. Poi quando l’acqua sale e arriva al gradino si tuffa nel livello
inferiore. Sali e scendi, picchia e mena , pian piano al di sotto si crea una
pozza ampia e profonda. Quanto basta per pescare o per irrigare l’orto.
Noi ci si faceva
il bagno.
Per esempio si
diceva: “… mamma, piglio la merenda e
vado al tufo (ndr. così chiamavamo la pescaia) del Foggi …. torno stasera a buio”. E lei: “… mi raccomando nini … attento alle serpi … ricordati di fare il bagno
dopo due ore dalla merenda … non tornare tardi che alle sette si cena e il babbo
si incazza se non ci siete tutti”.
I tufi erano uno
spasso. Alcuni erano fatti a scivolo con un lungo piano inclinato di mattoni
che finiva in un piccolo contenitore fatto a vasca quadrata. Scivolavamo
insieme a rane e moscerini in un’acqua non propriamente limpida. Ce n’era uno
in vicinanza di una casa di campagna. Era una vasca stretta e lunga con l’acqua
che arrivava alle spalle. Ci si poteva camminare e si potevano azzardare anche
un par di bracciate. Tutto ciò solo se il contadino era a lavorare nel campo di
sopra. Siccome la piscina era in realtà un lavatoio c’era sempre il rischio di
una fuga appena venivano sciolti i cani.
Al Mulino del Doccio lo scivolo era fatto
di massi.
La costruzione
era molto vecchia. Almeno un paio di cento anni. A quel tempo era disabitata e
diroccata e si mormorava fosse abitata dai fantasmi di una famiglia che c’era
bruciata per le conseguenze di un incendio doloso. E col piffero che ragazzini
di otto barra dieci anni c’entravano dentro. Ma fuori e durante il giorno ci si
poteva stare. Ci passavamo interi pomeriggi scivolando lungo quel naturale
sdrucciolo che ci accompagnava dentro il laghetto sottostante. I più temerari
si lanciavano dai sassi superiori. L’acqua era profonda abbastanza da poter
nuotare. Ogni tanto qualcuno, in genere i fratelli piccini, lamentavano la
presenza di qualche biscia o pesciolino dentro le mutande. Ma nel complesso ,
se chiudevi gli occhi e aprivi la mente, pareva di stare al mare.
Un giorno, mi
pare fosse l’estate del sessantotto ma poteva essere anche l’anno dopo, ci
spingemmo molto in avanti lungo il torrente che battezza la valle. Eravamo
oramai a diversi chilometri dal paese; poco dopo Sergine in un luogo chiamato ai massi grossi. Qui l’ Ascione, che
nasce poco sotto il castello di Cicogna in vicinanza al convento di Ganghereto,
è caratterizzato da una serie di massi ciclopici, all’apparenza piazzati a
sommo studio da un’ entità superiore, che realizzano un naturale sbarramento
allo scorrere delle acque. L’uomo a fatto la sua parte e ha terminato l’opera
con muri e briglie. Un tufo gigante insomma.
E come l’omino
che deve fare un lavoro grande e viaggia con un pennello grande anche noi
pregustavamo un bagno grande.
Ma il solito
amico ben informato ci raccontò una storia che bloccò ogni nostra velleità di
emulare i tuffatori olimpionici o i nuotatori americani. Ci presentò il fatto
come una roba vera che gli aveva, la mattina, raccontato suo babbo presente
alla scena. Il racconto, come se fossi suo padre, passa al tempo presente e alla
prima persona singolare: “… siamo verso
la metà del luglio millenovecento quaranta quatto. I tedeschi, in frettolosa
ritirata, si stanno per muovere verso nord. E come oggi è un caldo bestiale.
Dopo mesi bui e tristi siamo felici. I germanici se ne vanno e noi per
festeggiare ce ne andiamo “ai massi grossi” a fare il primo bagno da liberi.
Non c’eravamo mai stati per via della presunta pericolosità del laghetto sotto
il tufo. Ci hanno sempre impedito di andare per l’acqua fonda e infida che ogni
tanto forma dei mulinelli che tirano verso il basso. Ma oggi loro sono ad
organizzare la cena nell’aia per festeggiare tutti insieme l’arrivo degli
alleati. E noi andiamo. Dopo una lunga camminata siamo sopra ai sassi. Il primo
che si tuffa è Romolo. È il nostro capo banda e sempre il più imprudente. Si
butta dal masso alto nell’acqua profonda. Riemerge e accenna due o tre
bracciate. Poi succede. Non si è mai saputo cosa è accaduto. Se un crampo o un
congestione. Oppure un mulinello che lo ha tirato sotto. Fatto sta che
improvvisamente si inabissa. Poi risale. Poi ancora giù. Poi risale e chiede
aiuto con la bocca impastata d’acqua melmosa. In effetti è come se qualcuno o
qualcosa lo stesse tirando verso il basso. Siamo tutti impietriti. Impauriti
dal terrore. Restiamo fermi immobili per un tempo infinito anche se poi
stimiamo trenta secondi al massimo. Ma, purtroppo, bastano. Bastano perché il
corpo del nostro amico sia risucchiato verso il fondo. Solo allora ci
scuotiamo. Cominciamo a chiedere aiuto. I grandi nei campi arrivano veloci.
Qualcuno si butta ma l’acqua è profonda e melmosa. Sotto non si vede niente.
Non ci resta che piangere”.
Solo il giorno
dopo, con l’arrivo dei pompieri palombari, il corpo venne recuperato.
Lo trovarono
incastrato dentro una caverna sotto il muro di briglia della pescaia. Cinque
metri sotto dal livello dell’acqua. Era gonfio come persona che ha ingerito
acqua in quantità industriale. Assolutamente non pensarono, o forse non erano
quelli i periodi, a nessuna forma di autopsia o altre analisi. Fu seppellito
nel cimitero del paese e li riposa.
“Dopo quella storia col piffero che noi si
fece il bagno in quel tufo. Mai più. Per sempre”.
E stamani sono
in bici alla ricerca della fonte dell’Ascione. All’imbocco della provinciale mi
tengo sulla sinistra. In fondo alla discesina del pastore c’è un ponte di
mattoni. Subito dopo una strada di campo conduce verso la casa diroccata
seminascosta dalla vegetazione. Saranno pure passati una cinquantina d’anni ma
le coordinate le ricordo ancora bene. A memoria svolto a mano manca. Mi
accoglie un campo di girasoli le cui piante volgono le facce ad est a farsi baciare dalla stella gialla. Il
viaggio si interrompe davanti ad una catena tesa nel mezzo si strada. Devo
scendere. Provo un leggero mancamento, dovuto per certo all’assoluta mancanza
di forma fisica, appena poso i piedi per terra. Mi appoggio alla grande acacia
e ci parcheggio sotto il mezzo. Tiro fuori dallo zaino il quaderno dei disegni
e la stilografica. Volgo lo sguardo verso il fosso e calcolo il percorso in
cento metri e spiccioli.
Sono pronto. Me
la farò a piedi percorrendo il canale.
Scendo sul fondo
e subito disegno muri e briglia del piccolo tufo che ho di fronte. È senza dubbio opera d’ingegno. Siamo in aperta
campagna e la struttura è realizzata con tutti i crismi della costruzione fatta
per resistere al tempo e all’incuria degli uomini. Stimo che sia stata
realizzata, verso la fine dell’ottocento, da qualche mastro muratore dipendente
di una delle quattro fattorie che a quel tempo si spartivano il territorio e il
paese. Se fossi uno scommettitore ci giocherei un civettino; e lo vincerei di sicuro; cercando tra le tombe del
cimitero i morti tra il dieci e il trenta del secolo passato. Un mastro lo si
riconosce anche nella tomba.
Disegno gli
ultimi mattoni e il piano della chiusa.
Ho finito. Ora
mi vesto da esploratore e via. Non posso sbagliare. Basta seguire a ritroso il
percorso del fossato. E vai e cammina. Tra le macchie e le zolle e i moscerini.
I cento metri diventano duecento. Poi trecento e forse anche quattrocento. La
vegetazione si infittisce e il bosco anche. Il percorso diventa veramente
impervio. Mi maledico che mi sono scordato la roncola del nonno e proseguo tra
i rovi che intanto mi graffiano le braccia e mi straziano le gambe. Il sangue
scorre copioso. Ma non mi pare il caso di fermarsi. Devo portare a termine la
missione: “trovare la sorgente
dell’Ascione”. Che infine son riuscito a scovare. A trecento ottantotto
metri dalla bicicletta; l’applicazione del telefonino non sbaglia mai; sono
riuscito a scorgere l’origine del torrente.
Peccato solo che
la fonte era in secca. Come del resto tutto il borro.
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