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Autoscatto, 2018 |
Passi | 2018 - 19
L’otto dicembre
è il giorno “dell’Immacolata”. In
tempi andati era una grande festa sentitamente religiosa che in famiglia si
festeggiava degnamente con devota partecipazione a messe e preghiere di gruppo
oltre a un pranzo ancor più degno che
contava una sedicina di commensali compreso i due cani d’ordinanza: Campione e
Pippo. Grandi interpreti della tavolata la signora tagliatella al ragù di coniglio con il signor arrosto girato sulla brace bagnati entrambi col rosso della vigna
dirimpetto a casa. La fine era segnata dal sontuoso, anche per la forma a cono
rovesciato, bongo allo zabaione di
Giorgio da Soffiano.
Quest’anno c’è
un sole che spacca e il desinare non si tiene più da anni.
La famiglia è in
trasferta a Firenze e io non tengo voglia di trafficare, come tutti i sabato,
intorno alle piante del giardino. A quest’ora il genitore è intento al consueto
pisolino del dopo pranzo. Saranno le due o poco meno. Mi vesto per l’occasione
e vado. Il pantalone corto è perfetto per mitigare, ma non troppo, la leggera
brezza che solletica i muscoli e si inerpica fin sotto ai glutei. Il toni col cappuccio pare progettato per
vestire l’Omino Michelin ma col suo
arancio Anas funziona alla bisogna del viaggiar per strada. Il marsupio
contiene agevolmente chiavi, quaderno con l’occorrente per disegnare e telefono
in modalità “scatta foto”.
Posso partire.
A piedi e senza
fretta alcuna. Oggi faccio il cammino lungo. Saranno almeno sette chilometri.
Di normale lo faccio, a piedi o in bici, passando dal percorso che i nativi
definiscono “da sopra”. Alcuni anni fa
mi cimentavo in una corsa leggera che successivamente è calata fino al passo
sostenuto del dopo infarto.
Oggi, come il
gambero, vado all’inverso; passo “da
sotto”.
Attivo
l’applicazione “contapassi” e via. A
passo sostenuto svolto a destra sulla Comunale che arriva nella piazza del
borgo. Qui la prima fermata consta di pochi attimi davanti alla lapide di marmo
murata sulla facciata della Chiesa di Santa Lucia. Tralascio le prime righe intrise
di retorica patriottica e mi soffermo a scorrere i nomi dei soldati caduti
durante la Grande guerra. Quella del 15-18 di cui quest’anno son ricorsi i
cent’anni. Il numero venti della lista è il prozio Orlando a cui regalo un
pensiero leggero. In famiglia, come succedeva spesso in quel periodo di
analfabeti, sono state sono tramandate pochissime informazioni sulla sua vita.
Alcuna sulla
morte.
Nato intorno
alla fine dell’ottocento, come ultimo di tre figli, aveva avuto l’occasione di
un istruzione di base e perciò sapeva “leggere,
scrivere e far di conto”. Teneva una specie di voluminoso diario andato
perduto durante la guerra successiva. È morto, in data sconosciuta, sul Carso durante
l’assalto alla baionetta per riconquistar la trincea abbondata il giorno prima.
Almeno questo mi piace pensare in assenza di informazioni veritiere anche
perché; l’ho appena scoperto; il suo nome significa “famoso per la sua gloria” e San Martino del Carso dista la
bazzecola di soli 1.574 chilometri da Roncisvalle.
Saluto il “nipote di Carlo Magno” e mi avvio verso
la fine del paese.
La strada lastricata
in pietra è compressa tra due palazzi ottocenteschi che; all’inizio della discesa del Valcello; si aprono
improvvisamente alla campagna. In sinistra il parco botanico e in destra il
tetto giardino. Tutti in proprietà di una famiglia gentilizia fiorentina. Tutti
recintati da alti muri decorati con schegge di vetro incastrate in sommità. Il
messaggio è chiaro: “… fermi tutti …
proprietà privata … guai a chi si azzarda …” e via di seguito. L’avviso era
anche, per i ragazzi del paese, un implicito invito a nozze. La festa, dopo la
fatica dello scavalco del recinto, si svolgeva di notte nel parco. Col favore
delle tenebre si giocava a nascondino tra bossi e limoni, si spennavano le
ruote ai pavoni e si banchettava con i frutti di stagione.
Il tetto giardino
era invece accessibile solo quando c’erano i figli del fattore.
Costruito ai
primi del novecento, come copertura della cantina della Fattoria che al tempo
contava una trentina di poderi sparsi in tutto il Valdarno, è un luogo
veramente speciale: vanta un panorama a tutto tondo sulle colline circostanti,
ha le dimensioni e la forma di in campo di calcetto che al tempo chiamavamo campino, completamente inerbito e
adattissimo alle interminabili partite che vi si svolgevano da mane e a sera. Anche se ogni tanto il
pallone varcava il parapetto e si perdeva nel piazzale e nel bosco sottostante.
I peggiori sfottò
accompagnavano l’improvvido recuperatore della palla.
Intanto la
discesa, pendenza in quel punto del quindici per cento, è cominciata. Il
secondo tornante a scendere merita un immagine. La catturo con la fotocamera da
8 megapixel in dotazione al dispositivo che ho appena sguainato. Inquadro il muraglione,
a scarpa, di pietra arenaria grigiastra. Come un giocatore di poker prima del
rilancio leggo e descrivo quel che vedo prima dello scatto: “ … l’involucro esterno del posto dove si
produceva il vino avrebbe bisogno di un buon restauro, sarebbe opportuno
sostituire l’architrave della finestra che al momento è rompi trattata con un
pezzo di legno, se non ci fossero gli scuri si potrebbe vedere l’interno della
cantina e apprezzarne l’odor di muffa, diverse erbe spontanee stanno
prosperando tra gli interstizi della muratura, il paramento termina in alto con
una semplice ed efficace cornice a sporgere, la mediazione tra roccia e cielo è
affidata ad un’aerea ringhiera in fusione di ghisa”.
Click.
Mi rimetto in
cammino. A sinistra ancora il muro del parco. A destra uno spettacolare filare
di cipressi, stretti gli uni agl’altri, mi accompagna alla fine della discesa. Al
bivio con la Provinciale ci son tre edifici: una casa colonica riattata per due
famiglie, una villetta con giardino traboccante di troppi cespugli e l’antica
cantina della fattoria del clero poi declassata a modesto magazzino di un
confezionatore di vini. Sul muro di uno dei tre c’è attaccato un piccolo
cartello in metallo dove, su sfondo giallo, è disegnata una video camera e in
lettere maiuscole è evidenziato: “ ATTENZIONE,
area sottoposta a videosorveglianza per ragioni di sicurezza”.
Uno su tre. Non
è dove pensate. Chissà chi indovina.
Ci sono poi ancora
due oggetti che mi inducono alla sosta per una foto e un disegno. Ambedue per
serbar ricordo. La fotografia cattura l’immagine di un palo di metallo; di
quelli per cartelli di segnaletica stradale; con fissato un doppio specchio
parabolico montato effetto ambaradam … Stupefacente. Sul quaderno disegno un
pezzo di campagna e in precisione: alcuni gradini in legno incassati su terra,
un corrimano realizzato con sette paletti di legno a sezione quadrata, l’orto soprastante dove il cavolo nero la fa
da padrone, un olmo con il tronco sdoppiato in quattro e un tappeto color
ruggine disegnato da 4 o 5 mila foglie morte adagiate per terra … Autunno.
Il viaggio
impone la svolta a destra.
La strada
costeggia il torrente Ascione e si espone a nord. Uno dei posti peggiori da
fare in motorino. Umido e freddo, che non si pole, anche durante l’estate. Un
luogo perennemente in ombra con un pessimo micro clima. Ciò nonostante ci han costruito. Poco prima
del curvone; sulla sinistra poco sotto il bosco; c’è una casa che assomiglia
più ad un cottage che ad colonica. Pare che; avanti guerra; il terreno sia
stato regalato, dal padrone della fattoria, ad una famiglia i braccianti
numerosa e in particolari difficoltà economiche. L’edificio ad piano ha una
forma planimetrica a “elle” ed è
frutto di addizioni successive dovute a battesimi e matrimoni.
Poi alla fine
dei sessanta cambia la proprietà.
Il villino
acquista i caratteri di una casa all’inglese come i nuovi inquilini; due sessantenni
con figlia quarantenne la usano come
“buen retiro”dopo l’intensa stagione teatrale londinese. Si racconta
infatti che i genitori siano importanti produttori e la figlia una conosciuta
attrice drammatica. La bottega della piazza diventa la centrale informativa su
gusti e virtù dei nuovi paesani che, dal canto loro, conducono in verità un
esistenza spartana con sporadici contatti con i locali. Un posto singolare poi
passato di mano altre volte.
Ristrutturato
l’anno scorso ora è abitato da quattro umani e pari macchine.
La strada
prosegue fino al curvone. Dopo curva e contro curva in leggera salita, ideale
per le pieghe con la “ 50 special” giallo
banana se fossimo nei settanta. Se invece fossimo al principio dei novanta ci
sarebbe ancora Campione e svolterei a sinistra, per la campestre che si
inerpica su per il bosco. Appena prima del guado al torrente sosterei un attimo
in ricordo del nonno. Poi via il guinzaglio. Pronti in fila. Attenti. Via. La
strada verso il traforo invita alla corsa e io ce la metto tutta. Ma non c’è
niente da fare. Quattro contro due: vince sempre l’amico.
Anzi di regola mi
doppia: arriva al tunnel e ritorna scodinzolando di felicità.
Entriamo insieme
fin oltre la galleria. Con lo stesso timore o forse anche paura e meglio
terrore che mi assaliva in gioventù ogni volta che toccava passarci. Specialmente
la prima quando il gruppo dei ragazzi più grandi pretese, come iniziazione per
far parte degli “Ognesi”, che lo
percorressi da solo in andata e ritorno. Era la prima estate che passavo in
paese e non ebbi scelta se mi volevo far nuovi compagni. Il tunnel era buio,
umido e pieno di bestie. Il viaggio durò un eternità. I settantatre metri per
due furono percorsi in netti 3’ 38”.
Il tempo di
urlare a squarciagola “La luna è una
lampadina” di Enzo Jannacci.
Se invece volgo
lo sguardo a destra un campo spelacchiato serba altri colori, odori e
soprattutto sapori. Quelli del frutteto di pesche di “Cencio” l’ortolano ufficiale dell’abitato. Colui che veniva in
paese con l’Ape cinquanta color melanzana a vendere ortaggi e frutta ogni tre
giorni. Quei frutti che i ragazzacci del
villaggio; e dopo la prova del traforo anch’io con loro; andavano ad assaporare
durante le sere estive. Una goduria in tutti i sensi soprattutto per il fatto
che il banchetto si teneva sull’albero. La spesa fatta direttamente dal
contadino o, come si dice oggi dal
produttore al consumatore = Km 0.
Adesso al posto del
frutteto ci sono pecore, cane da guardia e pastore.
La strada
prosegue in falsopiano fino ad un boschetto leggermente rialzato. Un curvone a
novanta gradi segnala il luogo dove ancora fino ad una trentina d’anni fa si
riconosceva una casa colonica. Una costruzione singolare dotata di due accessi
sulla Provinciale. In quel periodo l’edificio era disabitato da tempo ma ancora
accessibile per i dotati di sprezzo del pericolo. Con Silvia andammo a
visitarla, non invitati, una domenica d’agosto. Insieme a noi solo topi e
cicale. La struttura non aveva particolari caratteristiche se non un insieme di
piccoli dettagli che ce la fecero scegliere: la scala interna illuminata da una
finestra inaccessibile, il camino gigante della cucina a volume doppio, la
tinta celestino Fiat 500 delle stanze
da letto, un pezzo del muro esterno costruito con strani sassi durissimi di
pietra ferrosa marrone scuro e la facciata principale intonacata color calce . L’aia
girava su tra lati ed era circondata da una corona di alte acacie che ombreggiavano
tutto l’intorno.
“Ci piace; compriamo, restauriamo, abitiamo”.
Questi furono i propositi.
Che fatalmente
si scontrarono con le prime operazioni logistiche: proprietà, intenzioni di
vendita, costi d’acquisizione e quanto altro. Il punto uno non fu facile. La rete
web era agli albori e le informazioni si reperivano per sentito dire. Sta di fatto che solo alla
fine di settembre il pastore ci lasciò un biglietto con nome e telefono di uno
dei due fratelli che avevano, vent’anni prima, ereditato il podere e il
fabbricato. Il due fu un disastro totale.
“Neanche per idea mio fratello …. e io ….
si vende. No di sicuro. Mai nella vita. È un lascito di famiglia e prima di
morire s’ha intenzione di sistemarla per i nipoti. Mai …. Piuttosto si fa
cascare”. Questo all’ingrosso il testo della prima delle dieci telefonate
del mese successivo. Le altre nove furono dello stesso tenore. Non abbiamo mai
avuto il piacere di sapere se l’idea che ci eravamo fatti per il numero tre era percorribile.
Dopo venticinqu'anni
i loro desideri sono stati esauditi: la casa è un rudere.
Il fabbricato è
assediato da rovi e pruni. Le macchie si sono impadronite dell’aia e delle
stanze. La gran parte di solai e tetti son per terra. Mi avvicino fino alla
porta della stalla e lo sguardo si inchioda sulla parete della cucina al primo
piano: “Si … per un bizzarro scherzo del
destino e grazie ad un pezzo di tetto ancora in piedi …. la parete dell’acquaio è ancora del verde ramato che
ricordavo …. Peccato”.
Scansando i rovi
scendo dalla seconda stradina.
Allungo il passo
fino al prossimo bivio dove, in sinistra, c’è l’indicazione per l’antico
castello del Tasso e in destra una selva di cartelli stradali. Ne conto otto
distribuiti su tre pali in poco meno di cinque metri lineari. Ognuno avverte
del pericolo: curva a destra, strada
sdrucciolevole, banchina cedevole, strada deformata, animali selvatici vaganti i
triangolari e divieto di sorpasso, limite
massimo di velocità 50 km/h i circolari. Tutti su fondo bianco bordato di
rosso.
Un orgia di
informazioni a casaccio secondo al regola del meglio + che meno -.
La curva, tutta
esposta a nord, è sempre in ombra anche con la buona stagione. D’inverno poi è
un delirio di umidità che, quando la temperatura scende a zero, diventa
ghiaccio. Una lastra infida e assai pericolosa che spesso causa incidenti.
Basta prenderla in scioltezza e sopra i settanta e sei fuori. Come scoprii in
persona pochi mesi dopo la patente quando m’appoggiai al greppo con la Centoventisei rosso fegato di mamma Dina.
Mi tirò fuori
dalla fossetta il trattore alloggiato nella casa dopo la curva.
Qui abitavano i
Quattrocchi; lontani parenti della rocker americana Suzi Quatro che ebbe un buon successo nei settanta anche da noi. Al
paese intendo. In quel tempo c’erano ben due jukebox che suonavano incessantemente i vinili Can the can e
48 crash. Poi un giorno un amico con
quel cognome si vantò che l’artista era appena passata a trovare il prozio
proprio a casa sua. In pochi giorni la notizia passò di bocca in bocca. Il cicaleggio
e il chiacchiericcio si fecero rumore fino a diventare pettegolezzo. Tanto
bastò.
Quel
settantaquattro la casa del trattore diventò meta dei suoi ammiratori.
Al prossimo
bivio la strada incrocia il salitone delle Gangherete.
Sul pianoro appena sopra c’è un campo recintato con tanto di capanno,
illuminazione notturna e telecamere ad ogni lato. Tutto questo dispiegamento di
tecnologia agricola è dovuto ad un furto subito alcuni anni fa. Era appena
arrivato il nuovo trattore completo di accessori e carburante. Il mezzo
agricolo lavorò per tutto il giorno poi la sera fu riposto al coperto. Pulito, ingrassato
e sbronzo di gasolio il veicolo riposò di un sonno lungo tutta la notte.
E poco prima
dell’alba se n’andò insieme agli attrezzi vecchi e nuovi.
Adesso il
cammino si fa periglioso con le automobili che scheggiano, nei due sensi, a
tutta randa. Chissà se adesso la casacca della tuta arancione vale perla legge
come giubbotto salvavita catarifrangente.
Ho il sospetto di no. Devo fare curva e controcurva e poi un ripida salita.
Quella detta del Pino. Per sicurezza lascio l’asfalto e calpesto la banchina. Appena attacco il pendio si apre la vista del
Pratomagno; il monte più alto della
valle. Circa milleseicento metri e anche di più se si conta l’altezza del
traliccio che disegna la Croce di metallo rosso che si vede da tutto il
Valdarno. Il cielo; completamente pulito dai venti dicembrini; è dipinto di azzurro cielo docg.
Entusiasmante.
A piedi si gode
del paesaggio. Un filare di cipressi da poco messi a dimora lungo un crinale è
la scoperta di quel giorno alla pedona. Avrei anche voglia di vergare un disegno
ma le macchine suonano il clacson e allora ripiego sulla tecnologia prendendo a
ricordo un impersonale immagine virtuale. Proseguo.
Cammino al
sicuro al di qua della linea bianca della strada.
Dritta, curva,
curva, controcurva, discesa e infine lo intravedo. Confuso con gli altri al
limitar del bosco eccolo. Lo scheletro di quello che una volta era il ciliegio
bianco. Dove ci si fermava, tornando dall’infruttuosa ricerca della fidanzata,
volentieri perché era lontano dalla casa del legittimo e vicino alla strada.
Era quindi una facile preda di noi adolescenti. A seguire il decalogo dei gesti
con verbi e avverbi: “ …. Ferma la vespa,
guardati intorno, spengi il motore, attraversa la strada, attento a non
calpestare il grano, sali sull’albero, mi raccomando non rompere i rami. Buon
appetito”.
Le macchine
adesso strombazzano da lontano e per sovra più lampeggiano.
Per tutta
risposta, come un equilibrista sul filo, imperterrito e funambolico seguo le
indicazioni di Virgilio al Poeta: “Non
ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Con grande attenzione piazzo piede su
piede sopra ai dodici centimetri della linea bianca che separa l’infido asfalto
della carreggiata dalla sicurezza del manto erboso.
Tre curvoni si
rincorrono prima delle case che segnano l’inizio del drittone.
Si tratta di due
edifici, in origine quasi gemelli, appartenuti a famiglie numerose che
coltivavano fruttuosi poderi contrapposti. Disabitate per un ventennio sono
state poi recuperate, circa vent’anni fa, a funzioni abitative urbane. Alla
sinistra è toccato in sorte la divisione in sette unità per altrettanti
proprietari. Alla destra, in apparenza, è andata meglio rimanendo in uso ad un solo
abitatore. In realtà ha subito un improvvido riattamento esterno con recinzione
modello villetta composta da muretto più ringhiera e nuova dipintura giallo
ocra al posto di una serie di strisce bianco e rosse che la rendevano unica: la casa a strisce.
Lo stradone
termina al bivio che conduce al paese e alla fine della passeggiata.
Il bivio è
segnato da una serie di pali per illuminazione con altrettanti corpi
illuminanti che hanno due caratteristiche: portano in alto un pannello
fotovoltaico e non funzionano mai o quasi. Tengo la destra e aumento il passo
fino alla centrale di spinta del gasdotto Trans Mediterraneo; un enorme spiazzo
grande come un medio podere; attraversato da gigantesche tubazioni interrate,
torri e capannoni e luci e luci. Un enormità di luce tanto che di notte ricorda
un aeroporto. Anzi, per chi come me è stato svezzato a pane e fantascienza,
rammenta il luogo perfetto per replicare l’atterraggio della nave aliena di Incontri
ravvicinati del terzo tipo.
E non nascondo che alcune notti sono stato
ad aspettarla.
Dopo il crocicchio di Traiana la via si fa
poco più stretta e tortuosa. Ancora un chilometro e sono in vista del cartello
che segnala l’ingresso al borgo. Poco prima volgo lo sguardo a man dritta e
saluto il tabernacolo intitolato alla Madre celeste in ricordo
dell’anno a lei consacrato 19 marzo 1955. L’edicola, di pianta rettangolare
in muratura di mattoni a vista, presenta pilastrini e cornici in pietra serena
bigia. La nicchia centinata accoglieva, fino pochi anni fa, una statuetta in
ceramica policroma di madonna con bambino di buona fattura. Poi alcuni
imbecilli; che di sicuro han sempre la mamma in stato interessante; se la son portata via.
Dal cimitero al
segnale saranno cinquanta metri in discesa. Li faccio di corsa.
Ma questo non
interessa. Preme invece chiudere il racconto della passeggiata che è in realtà
una narrazione di luoghi, persone e sensazioni. Mi ero proposto di poterne
descrivere almeno quattordici come le Stazioni della via Crucis. Lo stesso
numero di soste che si facevano per le vie del paese durante la processione del
Venerdì santo quando ci paludavano come tanti pretini canterini e a me solo,
notoriamente uno stonato cronico, toccava l’ambito ruolo del pesce.
Siccome ho il
sospetto di aver superato quella cifra abbozzo.
Magari forse
però interessano altri numeri? Eccoli: 10.979 passi contati per 7.685 metri calcolati e 494 calorie
consumate. Che poi ho scoperto essere “ …
bazzecole quisquilie e pinzillacchere” al cospetto di quelle che
ingurgiterò stasera a cena dove mi aspettano cento grammi di rigatoni
all’amatriciana e mezzo bicchiere di rosso per un totale di cinquecento.
No grazie, il
caffè mi rende nervoso.
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