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Alfabetiere, scheda, Italia, 1970 |
Gna | 2018
Ieri ho fatto un
gioco.
Se vi và
replichiamolo insieme. Per renderlo piccante facciamolo con due paletti: no
dizionario e niente web. Solo con le conoscenze personali. Cerchiamo parole con
“gna” e proviamo a raccontarle;
significato, storia e quant’altro; per quello che ognuno sa. Partiamo dalle
ventuno più cinque lettere dell’alfabeto. Con i ventisei caratteri si
compongono vocaboli e poi frasi e periodi e via in avanti fino al libro che
ognuno di noi più ama. Tanto per scoprirsi il mio è ”Le avventure di Pinocchio.
Storia di un burattino”, di Carlo Lorenzini detto Collodi.
Ma torniamo al
nostro passatempo riavvolgendo il nastro all’autunno scorso.
Son appena
arrivato dal gommista con una ruota bucata sostituita di fresco dopo una
maledetta foratura. L’orologio digitale accostato all’omino Goodyear m’accoglie
con il beep beep delle nove. È un
mattino uggioso e la pioggia fredda e fitta cade da nuvole di piombo.
L’addetto mi ragguaglia sul tempo di
attesa che quantifica in almeno quaranta
minuti e spiccioli. In tempi andati mi sarei fatto un caffè alla macchinetta
nell’angolo relax e una sigaretta appoggiato al portone dì ingresso.
Ma non fumo da
anni e il caffè mi rende nervoso.
Inganno l’attesa
facendo un giro dell’edificio. Il capannone che accoglie l’attività è enorme:
ventiquattro per trentotto passi lunghi; cioè venti metri per trenta circa con
almeno otto di altezza. Veramente imponente. Il periplo della fabbrica inizia
nel piazzale asfaltato all’ingresso e prosegue verso destra. Alla fine del lato
a man ritta finisce anche il marciapiede. Mi saluta uno spiazzo in terra e
fango punteggiato da frequenti pozzanghere distese come le chiazze scure della
pelle di leopardo. Le scarpe da cantiere sono nel cofano di dietro e comunque stanno in officina. Affanculo alle
calzature di sicurezza. Mi arrangio con le Superga sbrindellate colore sabbia
che indosso oggi.
E mi arrangio
male visto che la terza pozza è la mia.
La scarpa
c’infila completamente. Stavo saltellando tra acqua e fango cercando
contemporaneamente di scansare gli improvvisi goccioloni e sono scivolato per
terra. Il risultato è una scarpa inzuppata e il resto infangato. Come quando da
piccini si saltellava sul bordo delle pozzanghere e poi, spesso volutamente, ci
si cascava dentro.
Ecco. La
differenza è il “volutamente”. La sostanza è la stessa.
Comunque sia;
tutto bagnato, con il fango calante e con le orecchie che penzolano fin sotto
le ginocchia per la figuraccia appena fatta; mi avvicino all’angolo sinistro
del terzo lato. Svolto veloce e impavido per evitare sorprese e pozze. Mi
accingo a calpestare il quarto e ultimo piazzale. Che poi è uguale al terzo;
tutto buche, pozzanghere e fango. L’unica apprezzabile differenza è che da
questa parte qualche buon samaritano ha pensato bene di costruire un
marciapiede aderente alla facciata. Trattasi in realtà di striminzita banchina
in cemento grezzo larghezza centimetri cinquantotto spaccati.
L’ho misurata
col palmo aperto della mano. E poi: “… a
caval Donato …”
Nel frattempo la
pioggia rinforza d’intensità e potenza. Le gocciole sono diventate come
nocciole e quando ti beccano si sentono tutte. Abbandono quindi lo spazio
pezzato e mi fiondo a pesce sopra al salvagente. Il percorso si fa più agevole
e asciutto. In tre salti o poco più sono ben oltre la metà della parete. Qui il
viaggio si interrompe per via di un imprevisto e imprevedibile ostacolo.
Appoggiate al muro, sporgenti per quasi l’intera larghezza pavimentata
restante, ci sono tre lettere e due tubolari di acciaio zincato.
I resti di un
insegna luminosa mi accolgono e sorridono.
Il colore; un
verdino tendente al turchese; fa simpatia. Viceversa il carattere Futura “sans
serif” racconta niente di niente al vostro esploratore di piazzali urbani. In
buona sostanza non ho nessuna idea sulle lettere che seguono o precedono le tre
scatole appoggiate con grazia sul cemento. E dire che avrei voglia di saperlo.
Mi parrebbe una buona chiusura del periplo risvegliare il fiuto da
investigatore che, sopito ma non morto, è dentro di me. Non fosse altro per non
essermi infradiciato invano. E quando succede ritorno ragazzo e le sparo
grosse.
Potrei poi
sempre raccontare ai ragazzi di quella volta che son stato in palude.
Adesso è giunto
il momento di chiudere il racconto. Per allenamento faccio due gesti che so
fare di normale senza pensarci su troppo: alcune foto col telefono mobile e un
disegno sul taccuino da viaggio. E ancora continuo a brancolare nel buio più
assoluto. In verità alcune parole le sparo. Eccole di seguito in ordine di
apparizione: Castagna, Bevagna, Lavagna, Romagna. Tutto in velocità visto che
la pioggia si è tramutata in grandine e le noci son diventate di cocco.
E ancora manca
la soluzione al problema.
Mi tiro su il
cappuccio del piumino per limitare i danni ai capelli freschi di lavaggio e
chiudo la zip della cerniera. Ho solo pochi secondi di comporto per schizzare
verso il riparo dell’officina. Intanto nelle vicinanze della Croce del
Pratomagno batte un fulmine. È enorme. Lo vedo e lo sento. E con la saetta, come
spesso succede ad Archimede inventore amico di Paperino, ecco la lampadina che
si accende. La soluzione che mi intriga risale ad una battuta che sciorinava da
ragazzi l’amico Amelio che ogni tanto, per far colpo nel gruppo, con fare
sornione se ne usciva con il seguente quesito che, secondo me, risolve il
problema.
“Sai cosa dice lo gnomo alla gnoma? … ???
… Gnamo!”
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