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In viaggio (1)




In viaggio (1) | 2017

Mi piacerebbe viaggiare qualche volta … Sai?
I guerrieri della notte W. Hill, 1979

Avevo propria voglia di un viaggio d’architettura.

Il mio primo interamente dedicato alla disciplina. E il dicembre del settantotto se ne presentò l’occasione. Durante il corso di Disegno e rilievo avevo conosciuto certi ragazzi, studenti fuori stanza, che mi erano diventati amici. Io venivo dal contado e pendolavo tutti i giorni in solitaria tra San Giovanni e Firenze. Tra le attese delle revisioni al progetto si discuteva del più e del meno e anche di architettura. E ragiona e ragiona, com’è e come non è, scoprimmo un comune amore per un architetto svizzero trapiantato in Francia. 

Rammento che facemmo in modo di ritrovarci; a quei tempi si poteva scegliere il Corso e il Professore; alle lezioni di Composizione due. Qui si studiavano gli esempi storici di quartieri e abitazioni sociali e si provava timidamente a disegnarne di propri. Qui, nell’inverno del secondo anno, progettammo il viaggio.

Si fissò una cena in casa di tre di loro: Luciano che passava le estati nel campeggio dei suoi a Numana, Mauro che abitava in vista al porto di Ancona e Giorgio residente a San Marino; quindi straniero o al massimo oriundo come certi calciatori di seria A negli anni sessanta;  che faceva il galletto estivo al bagno della nonna a Torre Pedrera. C’era poi Simone da via Locchi e, indegnamente in siffatta combriccola, Massimo di Cicogna.

Doveva essere un venerdì sera perché ricordo che la mattina successiva, dopo una notte passata a parlare di C E Jeanneret e a bere alcune tremende bottiglie di rosso, cantina Le chiantigiane, i nostri ospiti presero il treno delle sette dalla stazione di Esseemmeenne. La cena cominciò con un classico della cucina studentesca dei fuori casa: penne al ragù della mamma di Luciano e proseguì con scatolame vario accompagnato da bietole scongelate ripassate in padella con aglio e olio evo. Il dessert fu inventato al momento con i cantuccini alle mandorle di mamma Dina inzuppati nell’ultima bottiglia di rosso stopposo. Che non aveva alcun merito se non il fatto che costava poco e il supermercato sotto casa l’aveva offerto al fantastico prezzo di sei bordolesi seimila lire. E noi ne avevamo approfittato. Olè.

La prima bottiglia se ne andò col primo giro. Dopo di ché prese la parola, monopolizzando la discussione, il buon Giorgio che si dichiarò parlante fluentemente un paio di lingue oltre il romagnolo. Evidentemente la sua attività estiva di tomber de femme lo aveva portato a incontrare e conoscere francesi e tedesche. Sfruttando questa sua peculiarità in un gruppo di ignoranti linguistici diventò facilmente il capo gruppo di un compagnia non ancora formata. Ci raccontò anche di aver molto girato con i genitori tra la Svizzera tutta e la Francia del sud. E questo fu il colpo del cappa o. A quel punto fu proprio incoronato condottiero  del viaggio e tracciatore dell’itinerario.

All’inizio avevamo timidamente parlato di un breve viaggio per andare a Marsiglia a visitare l’unitè d’habitation. Un paio di giorni durante un fine settimana del prossimo febbraio. Magari in treno e senza dormire in loco. Ma appena il nostro eroe attaccò  con cadenza tipicamente romagnola ci rendemmo conto dove voleva andare a parare. La scampagnata di quarantotto ore diventò ben presto un viaggio di una settimana o poco meno.

Ne discutemmo lungamente per tutta la cena e anche nel dopo. E poi per un poco della notte davanti ad un “the al limone aspettando che si freddi”. La mattina del sabato davanti alla moka da sei disegnammo l’itinerario con una matita bicolore come quelle delle maestre: linea rossa per le strade e pallino blu per le mete. Il nostro anfitrione era ben attrezzato; a fronte dell’assoluta mancanza di organizzazione o idee precostituite di noi altri quattro si era presentato alla riunione con una vecchia carta stradale Michelin della Svizzera che includeva una parte del sud della Francia. La carta risaliva agli anni sessanta quando i di lui genitori scorrazzavano per l’Europa alla ricerca di quella buona. E a noi bastava.

Ci lasciammo con la promessa di ritrovarsi il prossimo mese per i dettagli del viaggio e stabilire il periodo. Il giorno promesso ci ritrovammo sotto le logge del cortile degli Alberoni in piazza Brunelleschi. Al bar del biennio, davanti a certi caffè che definirli sciacquatura era un complimento, potemmo esprimere i desiderata. Ognuno di noi si era fatto un idea tutta personale del periodo migliore per la girata. A me sarebbe stato bene appena dopo gli esami di febbraio mentre per Simone il mese migliore era luglio meglio se dopo il quindici. Altri due dichiararono che stavano con i frati e zappavano l’orto.

Provate a indovinare chi ebbe la meglio?

Esatto. Passò alla grande la proposta del nostro capo viaggio che impose sei giorni a cavallo della prossima Pasqua. Partenza il giovedì santo, la mattina presto, con ritorno il martedì o il mercoledì successivi. Tanto per la precisione rammento che la domenica di Pasqua del settantanove cascava il quindici di aprile e cadeva durante la quindicesima settimana dall’inizio anno. Venne aperta la carta stradale e ci versammo sopra, come se fosse un brindisi che suggellava una promessa, il sudicio liquido che il padrone del locale si ostinava a chiamare caffè … e di quello bono.

Un giovedì di febbraio; era il giorno del mio secondo tentativo di passare l’esame di Storia uno e ce l’ho stampato nel profondo, ci si ritrovò in piazza San Marco appena fuori del bar pasticceria  dei locatori dell’appartamento che ospitava i tre fuori sede. Era un mattino freddo e l’appuntamento serviva a chiarire alcuni dettagli soprattutto sul mezzo di trasporto e sul volume del vestiario che ci avrebbe accompagnato per la settimana alla scoperta dell’architettura. Prima di tutto caffè e pasta alla crema nel locale lì davanti. E qui successe, almeno secondo me, una scenetta alquanto bizzarra: a fronte di cinque caffè e tredici paste pagammo per cinque colazioni. E via di corsa.

Poi fuori ci raccontarono che questa manfrina l’avevano lungamente studiata e poi messa in pratica diverse volte a locale intasato da avventori. Era praticamente impossibile che venissero scoperti; causa clienti; ressa e affollamento, rumore e vapore . E poi ricordavano bene di averlo visto fare da  Bernard Blier alias Nicolò Righi nel film Amici miei che li aveva ispirati.

Seduti sul muretto della loggia d’ingresso dell’Accademia; dopo i prescritti mugolii di ammirazione per quanto congegnato; passammo al primo e unico dei punti all’Ordine del Giorno: 1) Decisione sull’auto da usare. Le macchine a nostra disposizione erano tutte francesi; evidentemente le più gettonate tra gli studenti politicizzati e anche molto sinistrorsi che studiavano architettura a Firenze verso la fine dei settanta. C’erano tre Erre quattro; due bianche modello base cc 850 costruite cinque barra sei anni prima e una color sabbia modello lusso cc 1100 poco più nuova. Scegliemmo naturalmente la Renault Cinque che era la più spaziosa e, come dice la sigla, con cinque posti effettivi. E poi era del capo gita.

Cinque giovanotti stipati dentro ad una Erre cinque in viaggio al quinto mese dell’anno: abbigliamento esiguo, spartano e leggero. Questa fu la sintesi dell’incontro. Ognuno poi si organizzò come meglio credé. Per parte mia mi feci prestare, da un amico che aveva da poco finito la leva, uno zaino grigio verde militare di quello con i lacci: pratico, robusto e capiente all’occorrenza. Il sacco a pelo a mummia l’avevo comprato l’anno prima al mercato di San Lorenzo. Per il resto del vestiario ognuno di noi si attenne al concordato. Il nostro capo trasferta, al solito, si accollò l’onere e l’onore di procurare il riparo mobile per ogni bisogna. Contavamo di dormire in modestissime pensioni stipati insieme in camere di fortuna o simile. Però chissà mai che all’evenienza non potesse servire la tenda canadese, residuato bellico del nonno dell’escursionista capo?

E allora la mattina del giorno previsto si parte. L’appuntamento è all’ingresso principale, sotto la cascata di vetro, della stazione di Santa Maria Novella per le ore sei e trenta. Io ci sono e in perfetto orario datosi che mi son premunito di prendere il treno delle cinque e venti e son pure riuscito a bere un macchiato. I tre fuori sede arrivano poco dopo con la macchina carica. Le mie cose, zaino e sacco a pelo, ci stanno giuste giuste che a mala pena si riesce a chiudere lo portellone dietro. Passano dieci minuti. Poi ne passano venti e anche venticinque. E ancora non si vede Simone. Ho il suo numero nell’agenda dentro lo zaino. Si riapre il bagagliaio per recuperare la rubrica e ci imbarchiamo alla ricerca del gettone per chiamare. E vi assicuro che con tutte quelle robe da smuovere e spostare non è uno scherzo. Finalmente ne troviamo uno. Il telefono è dentro il salone della biglietteria.

Tocca a me che son quello che conosce sua mamma. E mentre vado arriva isso. Tranquillo come una lasca; pesce d’acqua dolce bianco e grigio famoso per essere sano e calmo; scende dalla macchina del babbo. Ci guarda come fossimo dei venusiani e se n’esce con: “… Beh. Che c’avete? S’era fissato per le sette. E sono le sei e cinquantanove”. Nessuno se lo caga. Viene cacciato nel mezzo del sedile di dietro. La sua roba se la prende sopra le ginocchia e si va.

La nostra dotazione tecnologico turistica comprendeva: gli appunti delle riunioni operative e le fotocopie fatte in biblioteca riuniti dentro a una cartella chiusa con elastico,  la carta stradale scarabocchiata e macchiata, cinque macchine fotografiche reflex, filtri e obiettivi vari, rullini per foto b/n e dia colore in quantità industriale, quaderni e blocchi e materiale per disegnare. Io mi ero assunto l’onere di spendere tremilaseicento lire per l’acquisto di : Le Corbusier serie di architettura 1, Zanichelli Bologna 1977 (cm. 14,5x21,0x1,5 b/n, pag. 252). Il  volume era; o meglio è perché ce l’ho ancora e spesso lo svolto, una specie di Bignami dell’opera dell’architetto. E servì egregiamente alla bisogna ogni qual volta le indicazioni della carta erano in contrasto con le note ricavate dai libri.

Alla prima meta, quasi un percorso di avvicinamento Vers une architecture del nostro eroe, ci arrivammo il giorno dopo la mattina all’alba. Il pomeriggio precedente eravamo giunti a Berna ed avevamo occupato il tempo successivo, fino a buio inoltrato, alla vana ricerca del quartiere modello le cui piante e sezioni avevamo lungamente studiato. Ma la Siedlung Halen non si faceva trovare. Sulla carta in nostro possesso neanche a parlarne e neanche riuscimmo ad incontrare individui abbastanza gentili da perdere un poco di tempo con le nostre farneticazioni linguistiche considerato che poi il nostro capo viaggio non era così ferrato con il tedesco. Ergo che dopo un frenetico girovagare fino alle nove di sera accostammo sul bordo della stradicciola dove ci eravamo persi e ci accasciammo l’uno sull’altro senza cena se non un pacchetto di gallette e una bottiglia di spuma che una mamma previdente si era ricordata di infilarci nel tascapane.

Poi la mattina dopo nel bar del paese; davanti al caffè e al meccanico del paese scoprimmo di essere vicinissimi a quanto cercato. Anzi riuscimmo ad intendere che era appena dietro la collina di fronte a noi. E allora ci recammo ivi di corsa. Il quartiere si rifà a uno dei cavalli di battaglia del buon Corbù: l'espace minimal e la densità del costruito tracciato sul terreno a gradoni. Un fitto insieme di case a schiera dal Nostro lungamente disegnate anche se mai costruite.  Qui gli architetti dello studio Atelier 5; siamo nel 1961; tracciano un viottolo di riferimento per chi vorrà cimentarsi nel proseguo.

L’unità residenziale; composta da cinque blocchi intorno ad una piazzetta; rammenta le trame della città medievale ma non rinuncia a tutti gli studi, sui materiali e sugli spazi, dell’architettura razionalista. Saranno state le otto di mattina o poco più quando lasciammo l’automobile nel parcheggio di fianco. Era un giorno di festa; giovedì santo per la precisione; e le scuole erano chiuse. Le reflex erano caricate a bianco e nero e pronte a sparare. Ad un cenno del capo pattuglia ci disperdemmo in direzioni diverse con la promessa del ritrovo in cortile. E dopo una ventina di minuti eccoci tutti. Stanchi, per via dell’andirivieni in basso e in alto, ma felici ché avevamo finito il primo rotolino da trentasei. Intanto si erano fatte le otto e mezzo e i ragazzini uscivano di casa. Al biondino col pallone il nostro traduttore chiese se si poteva entrare in casa sua. A tutta prima parve non capire un piffero: “ ... dipendeva di sicuro dal nostro capo brigata”. Poi ad un tratto mosse la testa dall’altro in basso e con un sorriso a tutta bocca fece: “… Ja … Ja”. Prese per mano la bambina con le tracce modello Heidi e ci fece segno di seguirlo.

Al suono del campanello si affacciò una mamma. Biondo cenere e bellissima. Vestita da casa e al contempo elegante ci fece accomodare. Dopo i primi impacciati convenevoli in tedesco scoprimmo che: parlava fluentemente francese, era insegnate di matematica al Liceo poco distante e suo marito era medico nel locale ospedale, i figli erano tre compreso il piccolino che stava allattando, aveva trentatre anni e ancora un fisico da pin up. Dopo caffè e sigaretta ci raccontò che il quartiere era abitato in gran parte da professionisti e insegnati; la classe medio alta insomma; e ci fece scoprire la casa. Che, con modeste e non significative variazioni, era similare alle settantacinque schiere che si distendevano sulla collina secondo l’orientamento del versante e guardavano a sud.

Insomma ci innamorammo tutti e cinque della bella svizzera.

A seguire un modesto resoconto copiato dal taccuino nero che avevo nella tasca della borsa della Pentax Asahi K1000.  “La casa è stretta stretta. Più stretta delle schiere di San Giovanni. A giudizio di passi contati sarà intorno ai quattro e quaranta. Non di più. Eppure pare vissuta e vivibile e gioiosa. Si entra, da un giardinetto coperto, al piano di mezzo dei tre dell’abitazione. Gli architetti hanno sfruttato la morfologia e hanno lavorato di gradoni. A questo piano ci sono: la cucina e un blocco igienico, la scala al sotto e al sopra, il soggiorno dove anche si mangia, una loggia con scala esterna e vista sul giardino inferiore. Al superiore due camere singole; strette e lunghe molto anguste; oltre alla matrimoniale che affaccia sul davanti. All’inferiore ci sono altre due camere; anche queste disegnate a corridoio; e il giardino privato. Una roba che salta agli occhi è l’assoluta scarsità di servizi igienici. Insomma la vedo dura gestire tre figlioli durante la notte con un solo bagno vicino alla cucina. Buona permanenza mamma.”.

Mi piace immaginare che all’uscita dalla casa la padrona ci lasciò con un bacio vero ma purtroppo non fu così. Tre au revoir e un sorriso furono bastevoli. E ciao.

Dopo le dia scattate in casa ci scatenammo nell’intorno fino a metà mattina. Poi via. Via per andare a visitare La Chaux-de-Fonds che, oltre ad ospitare molte industrie delle macchine che segnano il tempo ha dato i natali al Nostro. In questo posto si parla francese e ne son ben felice veduto che è l’unica lingua straniera che biascico un pochino. Qui esistono le prime case disegnate dal nostro eroe anche se devo dire però che fu dura alquanto trovarle. Quasi quarant’anni fa la città, con circa venti barra ventiduemila abitanti, era poco più della metà di quella che è oggi. E noi non avevamo carte o guide particolari. Avevamo solo la pagina 9 del volume Zanichelli del 1977. Li c’erano disegnate le facciate di sette abitazioni con i nomi dei proprietari e l’anno di costruzione: dal 1905 al 1916.  Provammo a chiedere in giro ma nessuno pareva conoscere o riconoscere i disegni che proponevamo. Ho il fondato sospetto che molto dipendeva dalla pronuncia di noi fantastici cinque. Ebbene si. Avevamo finalmente scoperto che anche con la lingua del luogo il nostro capo branco, come noi d’altra parte, faceva acqua o meglio eau.

Sia come sia alla fine e dopo molto errare trovammo un signore; che secondo me poteva avere gli stessi anni di Elleci se fosse stato in vita; che ci indicò la casa davanti a noi come quella, almeno pensava, dei di lui genitori. Peccato che; con tutte quelle vetrate, l’intonaco rosato e le forme sgraziate del recente ampliamento; non fosse parente e neanche cugina di quella riportata sulla nostra guida. E allora spinti dalla disperazione e, per dirla come il buon dottor Pasquano, dalla grandissima rottura di cabasisi schizzammo via da quel paese di orologiai.

Verso Neuchâtel e il suo lago e poi ancora a sud verso Losanna e Ginevra. Tutto d’un fiato. Senza soste neanche per pisciare. Eravamo partiti alle dieci del mattino e poco dopo passata la frontiera francese dovemmo fare una sosta. Forzata. Stavamo discutendo animatamente sulla civica educazione svizzera e sulla prossima tappa che nessuno del gruppo si accorse della lancetta della benzina. Che invece per suo conto pian pianino si pose in posizione di zero. E la nostra splendida erre cinque cinquantacinque cavalli, con un sussulto e cinque nostre imprecazioni, si fermò. E noi con Lei. Tutti fuori dall’auto in aperta campagna con l’ultimo paese attraversato almeno cinque chilometri prima. La pensata definitiva l’ebbe, al solito, l’autista che impose la scelta dei due fortunati camminatori per mezzo della filastrocca delle civette.

Eccola qui di seguito per chi non la ricorda:
“Ambarabà Ciccì Coccò
tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore.
Il dottore si ammalò
Ambarabà Ciccì Coccò”.

Le contate furono due. Con la prima venni nominato io e con la seconda scrematura Simone. Insomma i due toscani. Infilai la giacca a vento col cappuccio, quella marrone ruggine con le cuciture a rombo e il riempimento in sintetico, e Simone calzò l’eskimo verde militare. Partimmo di buona lena quando il pomeriggio volgeva alla fine. Durante la camminata, che si rivelò poi essere più dei cinque preventivati, il giorno si avvicinò al tramonto. Le montagne diventarono gialle, rosse, arancioni e poi il sole fece: Ciao. Nel frattempo avevamo ottemperato al compito che ci era toccato in sorte. A proposito: “ … ho come il sospetto che la scelta sia stata accomodata”. Ma tant’è oramai son passati tanti di quegl’anni che affanculo il sospetto. Dopo aver riempito la tanica la fortuna si girò verso di noi. Un simpatico cinquantenne con baffoni modello Stalin, cappello di paglia e camicia a quadroni, calzoni di velluto marrone con le coste e una vecchia due cavalli piena di galline ci offrì un passaggio. Che accettammo di buon grado e onorammo con una bella Gauloises gialla. Ora i lettori attempati lo sapranno di certo. Per i giovani quelle erano le sigarette di “operai e contadini: la versione «papier mais», con la carta gialla, è stata lanciata proprio per aumentarne il consumo tra chi lavorava nei campi e avvolgeva abitualmente il tabacco nelle foglie di granoturco”. Insomma ci aveva salito un contadino comunista.

La macchinina del nostro salvatore, probabilmente fabbricata quando il vostro raccontatore imparava a scrivere e far di conto, era lenta e sbuffava come una locomotiva. Sia come sia, con le galline che starnazzavano e il  guidatore che si accendeva una cicca via l’altra, al crepuscolo giungemmo infine alla piazzola dove c’era la nostra autovettura.

Salutammo con strette e abbracci il simpatico Marc Dubois e via verso Lione. Non  ci arrivammo quella sera. Ci fermammo in un piccolo paese per la cena. C’era una brasserie che aveva anche di che dormire. Eravamo stanchi come operai di fonderia e affamati come lupi. Ci bastava.

La mattina dopo arrivammo in città per visitare la Cattedrale. Secondo le nostre informazioni e anche e soprattutto secondo le info del nostro capo viaggio non c’era niente che valesse la pena. Almeno non per studentelli di vent’anni in viaggio per architettura contemporanea. Poi nel girare tra le stradine delle città vecchia la trovammo. La  Cathédrale Saint Jean Baptiste è un edificio in gotico francese a tre navate. Me la ricordo meravigliosa e cupa. Almeno questo è quello che mi rammento quando mi capita sotto mano l’immagine interna; nero scuro il colore dominante con apparizioni di luce bianca, che stampai all’epoca.

Dopo la visita alla chiesa e una sosta in un caffè per assaggiare una bevanda alcolica a base di anice, molto apprezzata dai locali che a me ricorda tanto la varichina e il gestore chiamava Pastis, alzammo le tende e sgommammo alla lettera verso sud est. Ci aspettava, almeno credevamo, la città di Firminy Vert con lo Stadio, la Casa della gioventù e l’Unitè d’habitation. Insomma il motivo che ci aveva condotto da quelle parti.

Il viaggio fu comodo e veloce. C’era una Nazionale a due corsie stranamente sgombra di traffico pesante. In poco più di un’ora coprimmo i settanta chilometri tra le due città. Trovammo anche facilmente il complesso e un parcheggio nelle vicinanze. Che la iella si fosse fermata a Lione? Il centro sportivo e quello sociale erano davanti a noi incassati in una piccola valle  appena sotto strada. L’unità si ergeva sulla collina poco più in là. Prima il pallone. Erano da poco venute le due di un terso pomeriggio di aprile. Era un venerdì di festa dalle scuole. Ci aspettavamo una masnada di ragazzini al gioco del pallone e una barca di giovani dentro la Casa.  Ma non c’era nessuno. Anzi meglio. Non c’era neanche il custode.  Tutto il complesso era sprangato come se fosse successo un qualcosa di strano e irreparabile tipo sono scesi gli alieni o la Fiorentina ha vinto lo scudetto o che so io.

Adesso che ci facciamo caso anche il traffico del viale alberato è a scartamento ridotto. Mentre ci accendiamo una cicca contiamo le automobili: dodici in quattro minuti nei due sensi. Praticamente un deserto. E poi, finalmente, le mie esperienze giovanili di chierichetto ci vengono in aiuto. L’esclamazione è più pesante e fa riferimento alla mamma di tutti comunque: “Perdindirindina … ‘o ragazzi … ma c’avete fatto caso  che giorno è oggi?”. La risposta di Luciano è di sicuro ancora più offensiva per la stessa mamma: “Cribbio … oggi è il tredici … è venerdì santo”.

… continua

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