Forno conto terzi | 2017
Ieri ho acceso
la televisione sul canale del telegiornale.
Normalmente ci
vedo solo cinema e poco altro visto che le notizie ormai si catturano
direttamente in rete. Ieri c’era un servizio sui forni del pane di Bari. Anzi
sui forni conto terzi per cuocere il pane della città pugliese. Il reportage
parlava di quelli del centro storico e raccontava che, a fronte di un numero
vicino a cento nell’immediato dopoguerra, ne son rimasti appena sette. E se la
tendenza negativa dovesse continuare lo zero arriverà entro la fine del
decennio. Questo tipo di forno è gestito di solito da una fornaia ed è
abilitato a cuocere il pane preparato dalle massaie. È in qualche modo un
attività di autocostruzione oltre che
dichiaratamente sociale e per questo mi intriga assai.
Alla fine
dell’inchiesta spengo lo schermo e rimango a fissarlo per un po’.
Il monitor nero
mi trasporta in una specie di limbo spazio temporale e m’accompagna indietro
nel tempo. – “Come se un aggeggio
elettronico di ultima generazione fosse capace di generare i fumi e le scariche
elettriche della macchina di HGW !” – sbotto appena mi riprendo. Ma tant’è.
A me è successo. Adesso son seduto davanti allo schermo, nero anche questo, del
televisore Grunding T7025L. Se non
ricordo male è il venerdì pomeriggio che precede la festa di Maggio. È appena
finito il mio cartone preferito e devo uscire per aiutare la mamma. Pigio il
bottone “spento” e rimango imbambolato a fissare la scatola scura per almeno
una trentina di secondi. Mi desta la
nonna che mi ricorda la commissione che devo fare in aiuto della mamma.
Lei è al forno a
cuocere le torte e i brigidini per la festa di domenica.
A quel tempo al
borgo c’erano rimasti due forni conto terzi gestiti da privati per gli usi
delle famiglie. Oramai, a parte i proprietari, più nessuno ci faceva il pane.
Però in occasione di certe festività venivano usati per cottura di dolci e
varie. Gli anziani del paese raccontavano di quando cinquant’anni prima i forni
erano cinque e funzionavano a pieno regime a giorni alternati per il pane e per
le feste le famiglie che potevano permetterselo ci cuocevano anche arrosti e
manicaretti vari.
Al forno, che si
trova nella capanna prospiciente la stalla della casa colonica del parroco, ci
trovo alcuni amici come me ingaggiati per il trasporto di biscotti e leccornie
varie.
Basta un
occhiata per intendersi.
Le mamme si
lasciano a chiacchierare e noi, con la scusa dei compiti da svolgere, si va a
giocare a pallone. Tanto le massaie di quel periodo non perdevano momento per
ragionar dell’ultimo disco di Mina o per la pettinatura dell’Orietta. Ognuna
aveva da raccontare gli ultimi pettegolezzi scoperti dalla pettinatrice del
paese. E figurati se stavano dietro a noi.
Che si fece una
memorabile partita a porticine: dodici pari e pallone nel bosco.
Il pallone si
perde nella macchia e il dispositivo si riaccende. Pian pianino mi riporta
all’oggi. E siccome si riavvolge lentamente faccio in tempo a rammentare alcune
altre cotture in forni conto terzi. Non si tratta di roba commestibile ma
piuttosto di banali materiali da costruzione e anzi se ci penso bene sono cose
quasi esclusivamente di terra.
Argilla in
realtà.
Manipolata e
impastata e trattata e lavorata e pressata e affusolata e formata e quanto
altro abbisogna. Poi messa a riposo all’aria corrente. Solo dopo cotta a mille
gradi e anche di più e poi, se vi aggrada, dipinta e vetrificata e via e via.
Che sia ceramica o terracotta o gres o porcellana poco importa. La base è la
terra. Quella molle e appiccicosa di regola di colore grigio verde.
Che noi ragazzi
di campagna si chiamava “sabbione”.
Il materiale si
trovava in certe fenditure del terreno, circa a mezza costa, delle basse
colline che circondavano il paese. Li ci si andava a nascondere quando si facevano
i giochi d’avventura come “indiani vs
caoboi” o più prosaicamente quando si “giocava
alla guerra”. In tutti i casi i due gruppi usavano i tagli nel terreno come
campi base e da li partivano le scorribande verso i nemici. Era grandemente
emozionante starci dentro visto che si arrivava anche a tre barra quattro metri
dal suolo. Pareva di stare nel “grand
canyon” con la differenza che sul fondo non c’era il fango rossastro del
Colorado ma banale “sabbione”.
Che usavamo come
palle di fango da lanciare agli avversari.
Solo quando
verso la fine della quinta elementare scoprimmo l’esistenza del “Das”; una specie di creta sintetica che
non aveva bisogno d’acqua per essere impastata e si poteva cuocere direttamente
nel forno di casa; ci rendemmo conto delle potenzialità del nostro “sabbione”. Che tanto più era
assolutamente gratuito. Bastava calarsi nel canalone e recuperare quantità
industriali di creta da modellare con la fantasia e poi cuocere nei forni dove
le massaie cuocevano i ciambelloni.
E cosa importa
se ci si sporcava di terra i vestiti ché tanto puliva la mamma.
Dopo le
esperienze artistiche e militari dell’adolescenza ho messo da parte la terra
grigia per dedicarmi ad altro. In realtà di oggetti di terracotta ne ho
maneggiati molti. Per una decina d’anni c’ho lavorato insieme specialmente
durante l’estate quando lavoravo come manovale e mezza mestola tuttofare nei
cantiere del genitore. E devo dire che ne ho visti e toccati molti di mattoni e
manufatti simili. Con uno mi ci sono anche scontrato con il pollice della
destra.
Naturalmente ha
vinto lui.
Per un’altra
decina d’anni li ho usati come misura di progetti giovanili. Rammento che le
prime volte quando disegnavo una facciata di terracotta mi mettevo in testa,
per via di rapporti e proporzioni, di contarli uno a uno non sapendo, meschino,
che poi il muratore avrebbe trovato mille trappole e giustificazioni per murare
secondo esperienza e quindi a modo suo. In barba a nottate spese a disegnare
fughe e architravi le aperture uscivano con alcuni centimetri di differenza e i
ricorsi assumevano altro passo.
E via.
Un giorno poi mi
chiamano a disegnare un piccolo parco lungo un fiume nelle vicinanze di una
cittadina. Niente di che ma il torrente e il borgo mi son vicini al cuore
datosi che li son nato e ancora li vicino abito. L’impegno quindi raddoppia
come le forze e il tempo che impiego per il progetto. Per l’esposizione del
lavoro, stabilita dentro una tenda nel centro della piazza centrale, preparo un
disegno molto grande che riesca a rappresentare tutto il parco lungo il
torrente: un qualcosa come sedici metri quadrati equivalenti ad altrettanti
tavole formato A0. E poi lavorai ad un plastico di creta . Modellai venti
tavolette di argilla formato A4 per riuscire a rappresentare il borgo murato,
le espansioni, il fiume e gli alberi fatti con fili di rame. E anche una che
dettagliava un attraversamento pedonale del torrente.
Successivamente
andai a cuocere alla fornace a carbone.
Dopo la
presentazione e le fanfare mi parve cortese donare il modello con le venti più
una tavolette alla città. Che apprezzò assai e prontamente se ne appropriò. E
anzi ci fece intorno una teca di legno e vetro che collocò, su caprette in
verità traballanti, prima in una stanza delle biblioteca comunale e successivamente
dei corridoi della scuola media. Le scolaresche; stiamo parlando dell’era ante www; l’usavamo come punto di partenza
per esercitazioni di geografia locale e
insomma il sistema fu gradito.
Poi un giorno un
ragazzetto con l’acne, brufoli e punti neri ci saltò sopra e ciao.
Alcuni anni dopo
ho imbarcato lo studio nell’ennesimo trasloco. Mi pare fosse l’ottavo o forse
il nono e comunque mi pareva importante
festeggiarlo. E l’ho fatto con un piccolo oggetto fatto del materiale
che meglio conosco e amo. Mi son quindi munito di attrezzi da taglio e ho
costruito una tavoletta di compensato su cui ho inchiodato una cornice. Quindi
son andato in cerca del “sabbione” e
l’ho manipolato quanto basta per poterlo distendere sul piano.
Poi ho scelto le
lettere.
Ne avevo diverse
recuperate da un tipografo conoscente. Erano le rimanenze di un armadio usato
quando si componevano i manifesti a mano. Ne scelsi quattro della misura grande
per l’acronimo e sei corpo tredici per il sottotitolo. Le composi incastrate in
una cornice rettangolare di legno. L’effetto era veramente elegante.
Adesso avevo il
negativo dello stampo.
L’argilla era
stesa per benino sulla tavolozza. Bagnai appena il negativo con le lettere e le
pressai sopra alla terra bigia. Rilasciai un poco e poi ancora una pressata.
Dopo alcuni secondi alzai lo stampo. Sotto erano rimaste incisi i quattro più
sei caratteri. I bordi erano sfrangiati ma comunque l’insieme pareva
intrigante. E poi a quell’ora; le quattro del mattino; dopo un’intera notte di
lavoro al tavolo di cucina ogni cosa pareva interessante. E quella più di tutte
era la voglia di una doccia prima calda bollente e subito poi fredda
ghiacciata. Come sia produssi ventuno di quelle tessere che elessi al rango di
biglietti da visita per in nuovo studio.
Naturalmente
andai ancora a cuocere alla fornace di Latereto.
Il mese scorso
mi son proposto di organizzare un corso di modellistica per l’architettura. E
siccome la terra è il materiale che conosco meglio ho cominciato ad immaginare
un seminario che trattasse di ceramica. Durante il percorso mentale mi sono
imbattuto in esperti e colleghi e da ognuno ho preso spunti e aggiustamenti. Il
fine ultimo è la produzione del modello
di una facciata in terracotta. Ogni partecipante disegnerà il suo progetto e
modellerà l’argilla che poi sarà essiccata e infine cotta.
Chissà se anche
stavolta potrò cuocere nella fornace del Baglioni?
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