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| Dentro la rete,Venezia 2007 (mi pare) |
La rete | 2007
“Saranno passati quasi ottomila giorni da
quando ci siamo visti l’ultima volta tutti noi tre da soli”. Questo è il
pensiero che mi si gira nella testa mentre pigio il bottone dell’accensione. Il
motore inizia il suo lavoro e io mi trastullo con i numeri fino all’imbocco
della strada del sole.
”A1 Valdarno” recita il cartello blu con
la scritta bianca all’ingresso della porta. L’orologio digitale dell’auto mi
ricorda che sono le seietrenta precise. Ho ancora una mezzora di balocco fino
alla Certosa. Voglio provare a contare i giorni esatti e allora recito la
filastrocca imparata dal nonno da piccino: “trenta
dì conta novembre con april giugno e settembre di ventotto ce né uno tutti gli
altri ne han trentuno”. Dunque … dunque … gennaio trentuno più febbraio
ventotto più marzo trentuno più sedici. Fino al 16 aprile dell’ottantaquattro
sono centosei. Trecentosessantacinque meno centosei viene
duecentocinquantanove. Primo anno. Poi trecentosessantacinque per ventuno se ne
esce settemilaseicentosessantacinque. Poi tre giorni oggi compreso.
Faccio il conto
a mente.
Il cervello
visualizza settemilanovecentoventisette. Se non ho sbagliato sono questi. Ma un
momento. Ogni quattro anni ricordo che un qualche Papa ha introdotto una
compensazione per via di certe ore spicciole che avanzano nel conto dei
trecentosessantacinque giorni ogni anno. Vado indietro negli anni e mi par di
ricordare che al tempo delle due torri che son venute giù si ragionava di un
anno che bisesta. E notoriamente gli anni che bisestano portano sculo. Almeno
mi pare. Se ho ragione vuol dire che l’anno prossimo febbraio conta ventinove.
Allora conto gli anni quattro a quattro. Duemilaotto che non mi interessa se
non per la partenza. Poi duemilacinque che conta per uno. E ancora duemilauno.
Il cervello si interrompe di colpo e la memoria se ne va per conto suo. Corre
alla fine dei sessanta e alla scimmia che lancia in aria un osso che poi si
trasforma in astronave.
E che diavolo!
Il duemilauno è
quello dell’odissea nello spazio. Ma il tempo scorre e la strada con lui. Passo
or ora davanti all’area di servizio dove c’è la sosta preferita dai ragazzi:
spizzico. E’ ora di finire la conta dei bisesti. Novantotto … novantacinque …
novantadue … ottantanove e ottantasei. Basta. Se il cervello; atrofizzato
dall’uso delle calcolatrici elettroniche che ci assillano da quanto avevamo
anni quindici o giù di li; non ha fatto tilt dovrebbero essere sette gli anni
che mi interessano. Settemilanovecentoventisette più sette viene
settemilanoventotrentaquattro. Un numero uguale ad un altro se non fosse che mi
fa uscire l’esclamazione imparata dallo spasimante della bionda (finto)
svampita che suona l’uculele e canta anche: “capperi”.
Allora ci avevo dato. Con buona approssimazione ma ci avevo proprio colpito.
Ottomila quasi.
Ma adesso basta
con i numeri che la freccia a destra mi ricorda l’uscita. L’appuntamento è per
le sette precise al parcheggio di Bottai. E io, minuto più minuto meno, ci
sono. Manca però l’altro che arriva in perenne ritardo. I soliti accademici
quindici minuti del tempo degli studi. Ricordo che una volta si doveva andare a
Milano per una Triennale. Il treno mi pare che partiva alle seietrenta da
Firenze Santa Maria Novella. E io, che vengo dal contado, dovevo puntare la
sveglia alle quattro e rotti per prendere il locale delle cinque meno due ed
essere alle seietre nella stazione del Michelucci. E io c’ero. Ma lui manco per
il cavolo. Se ne arriva tranquillo e riposato verso le sette e si scusa con la
frase classica: “Sai … la sveglia non mi
ha suonato”
Quindi, come
dire, conosco i miei polli e mi metto in stand-by.
Mi piglio il
secondo caffè nel bar di fronte e uccido la seconda bionda del giorno. L’alba
arriva a piccoli passi e lui anche. Ha parcheggiato la macchina mentre ero occupato
con i tasti del telefonino e cercavo di inviare il messaggio: “Dove sei?”. Visto la mia notoria
imbranataggine con la tecnologia contemporanea mi sono fatto preparare delle
frasi tipo che mi servono per guadagnar tempo. Non ce niente da fare il T9 non
riesco ad impararlo proprio. Se provo per esempio a scrivere OK lui mi scrive
NON. E allora mi imbizzarrisco come un cavallo selvaggio e soffio come un
drago. Ho risolto chiamando in aiuto la Giulia e Guido; anni quindici e undici
rispettivamente; che vanno come le schegge sopra i tasti del Siemens. “ Come
stai?” – attacco appena il socio è a portata di voce – e lui: “Non male …
grazie”. Ci si saluta velocemente e ci si accorda per la macchina.
Si va con la mia e si parte.
Si parte per la
Bassa e per l’incontro con il terzo.
L’appuntamento
con l’altro socio è fissato per le ottoetrentuno precise all’uscita del paese
dei magliari: Carpi. Per fortuna la strada; notoriamente intasata, per lavori,
nel tratto urbano della città del giglio; è libera e il viaggio procede senza
intoppi. Il tempo lo si occupa a raccontarci cose dei tempi passati e fatti
degli ultimi giorni. Problemi di famiglia e problemi di testa. Depressioni e
insonnie. Preoccupazioni per i figlioli e incomprensioni con le compagne.
Aspettative e delusioni del lavoro. Insomma i discorsi comuni della nostra
generazione: “classe di ferro
millenocentocinquantotto”.
Nonostante il
ritardo di partenza si riesce ad essere puntuali e precisi nell’ora fissata e
nel luogo previsto. E poi non mi son perso in tutti quegli svincoli che ci
trovano vicino alla città dei portici. E già questa è una novità. Mica è la
prima volta che per uscire a Sesto - Calenzano mi sono trovato a dover arrivare
fino a Barberino e tornare indietro. Ma adesso ci siamo.
Il Kangoo
dell’uomo con la barba è arrivato puntuale e noi con lui.
Luppi Gennari
Meniconi in ordine alfabetico. Si riunisce il gruppo della laurea. E chissà
perché la prima frase che mi esce è una filastrocca ascoltata al tempo della
televisione in bianco e nero. Mi pare che il programma fosse: “La nonna del
corsaro nero” e si era verso la metà dei sessanta. Attacco quindi con: “… siamo rimasti in tre … tre somari e tre
briganti … solo in tre” e strappo un sorriso agli altri due.
Il sole splende
felice e l’aria è secca e piacevolmente fredda in questo luogo di nebbie umide
e appiccicose. E questo ci pare di buon auspicio per la giornata che ci
attende. Ci si sente quasi come quei cinque amici che andavano per zingarate
nell’Italia dei settanta. Millenovecentosettantacinque per essere esatti.
Saliamo sulle
rispettive auto per il paese della cintura dove abita il nostro ospite. A casa
sua si sale in punta di piedi che la famiglia dorme. La mamma e i tre figlioli
in questi giorni di vacanza si alzano alle nove e passa e allora meglio non
svegliarli. Ci si prende il terzo caffè ma questa volta ce lo offre la
macchinetta d’alluminio dell’omino con i baffi.
E si parte.
Si lascia la mia
macchina nel piazzale di viale Varsavia al numero trentanovebarrab e si va con
il clone della mitica “errequattro”.
Si parte per la città del prosciutto. Si va nel luogo natale del Giuseppe
nazionale; quello con la barba e il ciuffo fluente. Il tipo che ha composto
l’Aida ma di cui non mi sovviene il colore. Il viaggio è occupato dalla continuazione
dei discorsi che si facevano prima. La famiglia. Il lavoro. I figlioli. Le
compagne. E non necessariamente in questo ordine. E poi la solita rumba della
macchina che funge da confessionale dei ricordi. “Vi ricordate … ragazzi … di quella volta a Milano in cinque con la
macchina bianca cambio al volante? … Si andava per mostre di architettura e si
percorrevano i viali vicino al palazzo dell’arte. Mi pare che si fosse verso la
fine dei settanta e le” bierre” avevano appena sequestrato non so quale
politico. E una volante ci ha fermato perché la targa dell’auto riportava la
sigla FI e noi si era vestiti con l’uniforme d’ordinanza degli studenti del
periodo: jeans stinti e golfino stropicciato; giubbotto a rombi e scarpe
superga bianco sporco. E capelli lunghi e spettinati. Agli occhi dei ragazzi
delle forze dell’ordine si appariva come dei possibili terroristi e per lo più
di Firenze; notorio covo di rivoluzionari. E ci hanno bloccato con la paletta.
Ci hanno fatto scendere uno ad uno. E piazzato mani sul cofano e a gambe
larghe. Mitra puntato e facce truci.
Controllo documenti e perquisizione estesa e completa. E … come si chiamava il
compagno di Ancona? … Mauro mi pare … e chissà che fine ha fatto. E il Tarsetti
che si mette a far battute cretine per il solletico che prova. E loro che si
incavolano e sbottano con un: “… poco chiasso ragazzi che questa è una cosa
seria”. E noi allora “silenzio di tomba”. Vi ricordate? … ”. E il Luppi con
l’accento della bassa che interrompe il fiume dei ricordi con un: “… Ma io non c’ero mica”.
Insomma tutto
quanto mi aspettavo nel dejà vu del sonno della notte passata.
Si va per Parma.
E si arriva finalmente. Parcheggio sui viali e giro per il centro. Commenti
alle vetrine che aspettano i saldi di fine stagione e poi si capita alla
Pilotta. Il palazzo è una roba strana. Pare un edificio non finito. O forse e
di sicuro è stato bombardato al tempo “della
seconda”. Il nostro anfitrione ci illustra la storia palazzo e ci racconta
delle bellezze del luogo. Ci racconta di un teatro tutto di legno costruito nel
cinquecento da certi signori della città e disegnato da un grande architetto. E
poi nel palazzo c’è anche un bel museo dell’arte che vale di sicuro la visita.
Prima il teatro che è un vecchio pallino del gruppo da quando si facevano gli
studi e si ragionava di labirinti e memoria e si pensava; in maniera alquanto
confusa e molto ingenuamente; che l’architettura serviva a rifare un mondo
migliore.
Per teatro
dunque.
Biglietto al
botteghino e dentro. Il luogo è più o meno come te lo aspetti che lo hai già
visto innumerevoli volte con disegni e foto e piante e sezioni e prospettive e
lo hai percorso con la fantasia cercando di immaginarti una delle tante
tauromachie che si rappresentavano al tempo. E’ un affare tutto di legno e tu
ci entri, come dire, dal sotto. Passi sotto le strutture che sorreggono la
scalinata dove stanno gli spettatori. Tutto di legno ma rifatto dopo il
passaggio di un bombardiere alleato. Una foto del tempo illustra la scena di
dolore e rassegnazione delle travi del tetto cascate sulla cavea. Si entra dal
“culo” si diceva. Lo sculo è però che non puoi passeggiare sulle scalinate e
manco nei palchi. Non puoi toccare le balaustre e neanche le figure mitologiche
che coronano la composizione. Puoi andare solo sul palco perché un grande
artista contemporaneo di cui non ricordo il nome ha provveduto a infilarci una
sua opera. E’ una roba tutta fatta a lastre di vetro messe per ritto e
incrociate secondo uno schema “a labirinto”. Il labirinto sta esattamente dove
un tempo ci stavano gli attori che facevano finta di essere guerrieri e
sollazzavano il principe con rappresentazioni di battaglie dell’antichità. E
magari quel luogo era allagato e ci stavano sopra le barche. Almeno mi pare. Le
lastre sono tutte rotte e le schegge stanno per terra come vanno vanno.
L’istallazione è stata promossa dal locale ordine degli architetti e racconta
non so quale sega mentale dell’artista. Il pensiero che a tutta prima mi
sovviene non è un bel pensiero e allora è meglio se lo prendo pari pari dal
primo film del buon Fantozzi quando lo costringono a vedere quella opera
immortale che racconta della presa del palazzo d’Inverno da parte dei
rivoluzionari del diciassette: “… a me mi
pare una cagata pazzesca”.
Dal palco una
freccia ci invita all’ingresso del museo e noi si raccoglie l’invito.
La galleria è
composta da una serie di sale grandi e piccole unite da percorsi e passerelle
aeree. Tutta scura quasi nera. Il ferro antracite e la pietra la fanno da
padroni. Le pareti sono in gran parte trattate a encausto anche lui nero. Per
la strada si legge che l’allestimento è stato curato da un grande architetto di
nome Guido come il figliolo che ho casa. E dentro si possono vedere opere che
valgono il biglietto pagato. Bello.
Ma lo stomaco
comincia a brontolare. Saranno le dodici o giù di li. Si decide che la visita è
finita e le ultime sale dell’ottocento si fanno alquanto di corsa. Si esce in
piazza. Si passa prima dal negozio del pane e dei beveraggi e poi ci si
accomoda al sole.
La piazza è in
realtà un prato.
Ma grande
grande. Un pratone davanti al palazzo. Ricordo di un concorso bandito al tempo
degli studi che fece misurare i meglio architetti del periodo e anche che
qualcuno; mi pare un tipo dal nome simile al giochino dell’idraulico al tempo
del game-boy e dal cognome che ricorda come quando si prende un colpo in testa
e ci spunta il bernoccolo; si classifico numero uno. Mi pare però che non se ne
fece di niente. Almeno questo è il mio ricordo. Il pratone, si diceva, è tagliato
da percorsi ortogonali incrociati ed alberati che conducono al palazzo. Da una
parte, a destra guardando il fronte del nostro accesso, c’è una grande vasca
coronata, sul perimetro, da grandi panche in pietra. La vasca ha una forma
strana. A tutta prima pare la planimetria di una chiesa con il transetto e
l’abside e tutto l’ambaradan che ti aspetti se ti immagini in pianta un
edificio di culto cattolico.
La capacità di
entrare nelle stanze e di immaginarle rappresentate in testa come se fossero
disegnate con le viste del disegno geometrico: pianta, fronte e lato secondo la
rappresentazione cartesiana degli assi “ics”, “ipsilon” e “zeta” è una roba
affinata nel tempo. Ricordo che da piccino andavo per cantieri con il babbo a
giocare sul mucchio della sabbia. E poi entravo nelle stanze e mi pareva di
volare a toccare il soffitto e le vedevo disegnate sul foglio di carta. E poi
cercavo di rappresentarle a scuola nei primi scarabocchi che regolarmente la
maestra mi segnava di rosso quando si faceva disegno. “Ovvia ragazzi … oggi disegnate la vostra casa … con i colori … le
finestre …. il fumaiolo e tutto” – faceva l’insegnante mentre si accingeva
all’ennesimo lavoro di maglia per Rino il barboncino. E io che provavo il
disegno tecnico senza sapere che cosa fosse. Disegnavo improbabili piante e
altrettante sezioni che la maestra; alquanto irritata devo dire; mi “icsava”
con il lapis. Quello blu e rosso. E il secondo colore è quello che toccava in sorte alla gran parte dei miei
componimenti artistici.
Ma adesso la
vasca.
La vasca è
riempita di acqua per dieci centimetri o giù di li e sotto l’acqua ci stanno i
sassi del fiume che taglia in due la città. Nella vasca ci sono pure certi
alberi che immagino; a questo punto; vogliano segnare le colonne della navata.
I pioppi cipressini si ergono diritti come fusi. Paiono fatti con lo stampo. O
forse sono semplicemente potati da esperti giardinieri. Me la immagino di notte
con le luci che scappano dall’acqua e illuminano, da sotto, le panche. Non
male. Veramente.
Vicino
all’ingresso della chiesa che non c'è più si trova un muro di pietra con sopra
appiccicata una grande lapide di bronzo che magari racconta la storia
dell’edificio e del palazzo. Il muro è circondato da una panca a forma di
ellisse. Ci si siede li. A sedere sulle panche di pietra si riprendono i
discorsi da confessionale e … “ … ma sono
robe nostre … che vi frega a voi?”. La campana batte un tocco. Sospetto che
sia l’ora di andare a riempir la pancia.
Ci si accorda
per la trattoria dei Corrieri che ci pare un bel nome attinente al viaggio.
Dentro mi pare che si sia cercato di mantenere il carattere familiare
dell’osteria “dopo guerra ”. Tavolini
apparecchiati con tovaglie a quadretti bianco e rossi. Camerieri con i grembiuli fino alle scarpe. E poi c’è la stanza degli
affettati e dei formaggi. Evidentemente un pezzo forte della casa. Bancone a
muro su due lati ricolmo di insaccati e parmigiano e grande vetrata che accede
al cortile dove si mangia durante la buona stagione.
Nel mezzo troneggiano
due affettatrici a mano.
Quelle tutte
rosse e cromo che cerano un tempo nelle botteghe di paese e che si trovano
adesso nei banchini delle fiere dell’antiquariato. Queste hanno anche la base
cilindrica che parte da terra e occupano un bel pezzo della stanza.
La pancia è
stata mezzo riempita dalle focacce e dalla la birra ingurgitati seduti sulle
panche della vasca e allora giusto un assaggio del piatto forte del luogo:
tortelli con ripieni vari. Alle erbette, alla carne e alla zucca gialla
innaffiati dal lambrusco spumeggiante di queste parti. I sapori si mischiano
bene e la pancia è soddisfatta. A tavola si ricorda della prima volta che due
di noi hanno gustato i tortelli di zucca.
Correvano i
primi dell’ottanta e la nostra amicizia si era cementata nel costruire insieme
esami e progetti. Il nostro anfitrione; Luppi Antonio da Correggio, Reggio
Emilia; ci invita per un fine settimana nella bassa. E c’era anche la Silvia. E
la domenica a pranzo ci toccò il piatto forte di quelle parti: il tortello. Ma
ripieno di un impasto di zucca gialla e trito di amaretti (quelli di Saronno).
Roba (finto) leggera da condir col burro e parmigiano. Ma strana. Strana per i
palati di noi toscani avvezzi al sale e al pepe e non assolutamente preparati a
quello inconsueto incontro di dolce ripieno con il salato della sfoglia. La
mamma del nostro ospite ci riempì una scodella piena fino all’orlo. E noi si
gustarono di controvoglia. Per parte mia ricordo di essermi servito più volte
dal piattino del formaggio grattato. E poi chiesi il pepe, il sale e anche il
peperoncino. L’idea era quella di mascherare il dolce della zucca e granelli
dell’amaretto. Ma devo dire che il dolciastro non spariva mica. Anzi, se
possibile, la mistura di spezie amplificava l’odioso sapore. Un occhiata agli
altri piatti dei fiorentini mi comunicava il loro disagio. E il Lambrusco del
luogo non aiutava per niente con tutta quella spuma e quel gusto di dolce
fermentato. Uno di noi: il Simone si decise per l’attacco frontale e la
velocità di esecuzione. Ingurgitò il contenuto del piatto in pochissimo tempo.
Un lampo ed la ceramica bianca Richard Ginori dei giorni di festa era vuota. E
la mamma del nostro eroe: “ … ’O Simone
che fame che avevi … ne vuoi ancora …(?)”. La domanda non era una domanda
ma piuttosto un affermazione. Tanto è che tra lo stupefatto e lo sconcertato il
Meniconi di contropiede provò ad abbozzare una debole rinuncia iniziando la
frase: “… Non importa …. grazie …
veramente …” Ma il ramaiolo era ormai partito e il piatto di nuovo
riempito. E allora io; che sono a tavola sono notoriamente un fulmine; presi a
gustare con calma. Molta calma. Leggevo il sudore interiore negli sguardi del
Meniconi e ridevo, di gusto, sotto i baffi che non avevo. Da allora orni volta
che mi capita l’assaggio del tortello mi ritorna in mente la scena.
Mitica.
Ma le tre
incalzano ed è giunta l’ora di partire per il paese del prete versus il sindaco. Il paese vicino al
grande fiume teatro di innumerevoli storie raccontate dalla penna mirabile
dello scrittore di “Mondo piccolo”. Il Luciano con i baffoni che assomigliava
tanto al baffone descritto nei racconti. Ricordo come fosse ora tutti i film
bianco/nero visti per la prima, da piccino, nella sala parrocchiale del paese
battezzato dall’uccello con le zampe lunghe che porta i bambini. E le battute
le so tutte. E poi da grande ho letto il libro. Un’edizione originale del tempo
che fu del babbo del mio amore. Carattere Bodoni corpo quattordici su carta
grezza con cinquantotto disegni dell’autore. Finito di stampare il 18-IX-1952
nelle Officine Rizzoli n.c. Anonima per l’arte della stampa, Piazza Carlo Erba,
Milano.
Il paese è come
lo ricordo dalle pellicole e come me lo immagino dal libro a parte i necessari
aggiornamenti temporali e tecnologici del nostro tempo. La piazza è occupata da
due bronzi a scala umana dei due personaggi che si fronteggiano da lontano. Uno
vicino alla chiesa e l’altro di fronte al municipio. In piazza ci sono due bar
che prendono il nome dei due. La vecchia scuola elementare è diventata museo e
intitolata allo scrittore. La piazzetta davanti all’edificio sopporta il peso
ingombrante del carro armato verde militare servito per certe scene di un film.
La foto ricordo davanti all’attrezzo bellico la facciamo scattare da una
ragazzina seduta sul muretto a lanciare messaggi con il telefonino. Il museo è
a: “ingresso libero con offerta” e
racconta; per immagini e oggetti; le storie narrate dallo scrittore. I cadget
al bancone d’ingresso non sono però assolutamente all’altezza dello spessore
dell’ambiente. E allora non si lascia manco una lira di offerta. Si va
all’argine del fiume che taglia la bassa e divide i piemontelombardoveneti dagli emilioromagnoli.
Ci si arriva che
comincia a bruzzicare e il freddo si fa pungente. Un bel the al limone è quello
che ci merita. E indecisi tra il bar del parroco e quello dell’amministratore
si sceglie allora quello anonimo del “corso”. L’atmosfera del locale ricorda
gli anni cinquanta. Pare che il tempo si sia fermato. Il bancone di legno e gli
omini intenti al gioco delle carte: briscola, scopa e tresette. La coppia che
vince canzona i perdenti mentre sorseggia il quartino di vino in palio. La
bevanda è fumante e densa. L’ambiente inviterebbe ad altri ricordi. Ma il buio
incombe e al Gennari quando scurisce gli prendono le paturnie e comincia a dire
che: “ … Ragazzi … che ne dite? … Un
sarebbe mica l’ora di andare … la strada per tornare è lunga … e guido poco
volentieri di notte … “.
E allora si
prendono i paltò e ci si avvia verso la Kangoo parcheggiata di fianco alla
macchina da guerra con il cannone e i cingoli e tutto. Il motore si avvia al
primo colpo. Il riscaldamento è al massimo e la nebbia scende.
La giornata è
finita.
In fretta si
percorrono strade di campagna strette e dritte come fusi. Poche curve e grandi
fossi dalle parti. La nebbia scende ancora e la velocità si abbassa fino al
passo d’uomo. Poi dal muro bianco una luce. E’ l’insegna del posto dei
tortelli. Un chilo per uno divisi a metà tra quelli all’erbette e quelli di
zucca che adesso, per i foresti dell’auto, sono diventati una bontà. Anzi
meglio una roba irrinunciabile ogni volta che si passa dalle parti della bassa.
La macchina
giunge infine alla casa del Luppi. Adesso è il momento dei saluti. Un abbraccio
e un bacio e via. Ci si ripromettono altri incontri che magari saranno onorati
tra altri ventitre anni. Ma, come dicevano Aldo Giovanni e Giacomo: così è la
vita.
Si torna a casa.
All’imbocco del
casello la nebbia se ne va e noi con lei. Si fa come il Baglioni che si leva da
tre passi a dai marroni.
Il viaggio di
ritorno è silenzioso. Ognuno di noi due ha pensieri diversi e magari ha voglia
di assaporare ricordi e sensazioni della giornata appena passata. Non saprò mai
quello che passa nel capo del Meniconi che si appisola nel sedile di lato.
Per parte mia un
pensiero mi attanaglia feroce durante tutto il viaggio di ritorno.“Chissà chi mai avrà disegnato la piazza?”. Il
pensiero mi riflulla in testa. Batte e ribatte tra il destro e il sinistro dei
padiglioni auricolari. Sono sicuro che stanotte non mi farà dormire. Navigherò
nei meandri della mente alla ricerca del nome.
E allora decido.
“Appena torno a casa … cascasse il mondo … mi attacco alla rete”.

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