All’albero rosso del Sodo | 2005
L’appuntamento era, come tutte le
domeniche, per le sette di mattina all’incrocio dove c’è l’albero.
Si ritrovavano insieme oramai da nove
mesi; curiosamente il tempo che occorre dall’inseminazione alla nascita; al
crocicchio del quartiere. L’appuntamento festivo era una sorta di rito pagano
per finire la settimana. La giornata prometteva bene. Il sole del mattino
primaverile cominciava a scaldare il corpo e lo spirito. Era il giorno adatto
all’ultima riunione della Commissione dell’ornato. Il gran giorno del taglio
del nastro e della festa del quartiere.
La commissione, formatasi in maniera
spontanea e alquanto insolita in questi tempi di villaggi globali ed
elettronici dove si incontra su chat la fidanzata ma non sappiamo chi è la
persona che incontriamo in ascensore tutte le mattine uscendo dall’appartamento,
lavorava oramai da due anni. Il lavoro era servito a organizzare le richieste e
a mettere in fila le idee degli abitanti. A incontrarsi con i tecnici
dell’amministrazione e con gli architetti. A organizzare la mostra dei lavori e
poi sovrintendere al cantiere.
Conoscevano benissimo l’intervento
che oggi si bagnava per averlo seguito in maniera pressoché quotidiana durante
tutto il corso della passata stagione.
Ma però i lavori meritavano un ultimo
giro.
C’erano tutti i commissari: Gino il
farmacista, Filippo il droghiere, Umberto l’elettrauto, Giovanni il macellaio,
Andrea l’imprenditore, Oriano l’operaio, Vanni il barista, Gaspare il prete,
Guido il pensionato e buon ultima Lidia la ragazza madre di due piccole pesti.
Iniziarono il percorso dalla Chiesa
di via delle Panche. Il percorso
pedonale, in destra alla circolazione delle auto, alberato e ombreggiato da
gentili alberelli di Melo posti in bell’ordine su due file parallele li
accompagnò nella discussione delle notizie fresche di stampa del giornale
locale. La squadra della città; tornata nella massima serie l’anno passato;
rischiava di scendere nuovamente di sotto e ciò non era ammissibile per i
nostri eroi che avevano vissuto i passati tempi del bell’Antonio con le sue
splendide giocate e le lotte feroci con la formazione dalla maglie a strisce
bianconere.
In sinistra al fianco della chiesa la
stele di alluminio rosso segnalava l’ingresso al quartiere e raccontava delle
attività e delle merci che vi si potevano trovare. La replica di questo oggetto
era sparsa in più punti agli altri ingressi dell’abitato; funzionava come una
sorta di cartellone pubblicitario con sopra inciso i nomi e i cognomi dei
negozi e la sera si illuminava come un lampione.
L’oggetto seriale tentava di
rispondere alla dilagante moda, tutta “made in U.S.A., dei centri per il
commercio che stavano sorgendo, sempre più, laggiù nella Piana. Voleva essere
porta di ingresso al centro commerciale a cielo aperto del Sodo. Una risposta
poetica all’aria condizionata delle scatole di cemento piene di sconti e
offerte speciali. La spesa sulla strada; com’era la tempo del Vasco -non il
cantante della Bassa ma il Pratolini dell’altra sponda dell’Arno- invece della
galleria commerciale sul modello inventato dall’altra parte dell’Oceano.
Sul davanti della Chiesa; la nuova
piazza intitolata al grande Mario poeta e libero pensatore che aveva un tempo
abitato questi luoghi; era quasi interamente coperta dal grande velario di tela
bianca che sarebbe servito a mettere a tavola le trecento persone previste
all’ora del desinare. Le prime massaie arrivavano alla spicciolata e iniziavano
i loro compiti. La cucina da campo, gentilmente prestata dalla vicina caserma
di Quinto, lavorava a tutto fuoco. Il mangiare prevedeva robe locali. Antipasti
misti di crostini neri e salumi nostrali. Ribollita e pappardelle al ragù per i
primi. Bistecche con l’osso alte tre dita e cotte alla brace per i secondi.
Fagioli zolfini all’olio di frantoio e insalata dell’orto per i contorni.
Pecorino del pastore e fave fresche. Pane cotto a legna dal fornaio del
quartiere. Vino rosso delle vicine fattorie e acqua di fonte per i beveraggi.
Frutta di stagione. Cantuccini col vinsanto e caffè al bricco per finire.
Spumante italiano, dolce e secco, per bagnare la festa.
Ma continuiamo il nostro percorso.
Sul fronte della Chiesa di San Pio decimo e tangente alle scale un percorso
carrabile in pietra forte grigia a ricorsi conduce: le macchine alla sosta nel
piazzale sul retro e la vista verso le vicine colline.
Il grande alberone, un Cedro piantato
appena dopo l’ultima guerra, ombreggiava la seduta rettangolare in travertino
bianco di Rapolano. Qui la piazza era scoperta e mostrava la sua tessitura con
ricorsi di travertino e campi di pietra marrone rosato. Le bianche panche del
viale alberato invitarono alla sosta e alla discussione la Commissione.
I nostri personaggi ricordarono, con
piacere i mesi passati. I lavori degli operai e la visita degli architetti in
cantiere. Le discussioni sulla posizione dei lampioni e sull’individuazione dei
parcheggi per le automobili e degli arredi. Era stato un bell’inverno.
Eccitante perché si discuteva del futuro del quartiere e dei loro abitanti.
Bello.
Ma ora c’era da continuare il
percorso e poi da preparare la sorpresa decisa la sera prima. I dieci si erano
incontrati il sabato alla nove dopo cena nei locali del consiglio di quartiere
e avevano concordato lo svolgimento della festa. Il taglio del nastro era stato
deciso dal Comune mentre il desinare del mezzogiorno dalla popolazione tutta.
Loro ci avevano messo il tocco del genio. Ricordarono bene le parole del più
anziano. Guido il pensionato aveva esordito: “Ragazzi scusate ma devo dire una
roba. Va tutto bene. Il taglio; la bottiglia di spumante stappata dal Sindaco;
la messa e la benedizione di Gaspare; il mangiare toscano e le bandierine tese
tra le case . Tutto bene ma mi pare che manchi qualcosa. Qualcosa che ricordo
si faceva quando ero piccino alle feste. Un vecchio gioco che eccitava gli
animi e faceva divertire la gente. Non una roba tecnologica tipo gara al
computer. Ma piuttosto la corsa dei sacchi. Oppure il tiro alla fune. O meglio
la corsa dei sacchi.” Ma tutti bocciarono le sue idee. Allora il nostro se ne
uscì con l’idea del genio e riprese: “Ecco. Ce l’ho. Sfruttiamo un oggetto
appena piazzato nel quartiere e facciamo un gioco antico. Dopo mangiato; verso
le quattro o meglio alle sei che è più fresco si potrebbe organizzare … (ma
questo lo raccontiamo da ultimo che altrimenti si perde il sapore della lettura
–ndr)”.
Si alzarono dalle panche e si
recarono all’incrocio disegnato in pianta come uno scudo che ricordava i tempi
di quando la città era libero Comune ed estendeva la sua egemonia dagli
Appennini al Tirreno; dai monti del Marmo fino alle paludi dei Butteri. Qui il
viale alberato si interrompe davanti alla figura pietrificata o meglio,
passateci il termine, bronzificata di un
abitante del quartiere. La scultura, come altre sparse lungo le strade, fissa
le persone che abitano questi luoghi in momenti della loro vita. C’è l’uomo che
cammina e la donna con le borse della spesa; il ragazzo in bicicletta e la
persona seduta a leggere il giornale. Le opere vogliono cogliere e fissare sul
bronzo uomini e donne semplici in momenti normali della vita. Un quartiere e i suoi
abitanti. Ma il giro deve continuare e poi c’è ancora da finire di allestire la
sorpresa. Si và verso Sesto lungo via Reginaldo Giuliani. Si cammina verso la
fabbrica del vetro. Si và verso la fontina. La fontina è un idea uscita fuori
dalle discussioni dell’anno passato. Mutuando un distributore pubblico di acqua
controllata e buona per bere già operante al parco dell’Anconella è venuto in
mente la richiesta. Andrea, imprenditore e commissario, l’aveva sponsorizzata
economicamente e adesso era costruita. Una vasca di pietra bianca altezza
ombelico era stata montata nelle vicinanze dell’ingresso della manifattura dei
mattoni di vetro. Dentro la vasca una stele in marmo di statuario Carrara e vetro a spessore fatto da
un grande maestro di Empoli, alta un paio di metri, portavre vestito in
uniforme da alta parata con il cappello a tesa larga e il pennacchio in cima.
E allora perciò era stata nominata
“la fontina del carabiniere”.
Accanto alla vasca c’era il beccuccio
in bronzo, altezza bambino di anni sei, che distribuiva acqua buona per bere,
certificata e controllata dai tecnici che gestivano l’acquedotto della città.
Dall’altra parte della strada, quasi di fronte alla farmacia, un doppione
ridotto della vasca era disegnato come una fioriera con sedute e stele
commerciale in alluminio rosso, come le altre all’inizio del quartiere. Gli
alberelli di Melo si ripetevano in un filare semplice sul lato della fioriera
ed unificavano l’intervento. Panche in pietra con luci incassate per
illuminazione radente e panche in legno
per sedere a riposare. I marciapiedi sono disegnati per le persone a piedi;
sono allargati e pavimentati in pietra forte grigia di Firenzuola con liste e
zanelle in Porfido. Gli stalli delle automobili lungo le strade pavimentati
come i marciapiedi. Il travertino bianco a segnare, come un tappeto, i luoghi
delle sculture. Lampioni in alluminio rosso in forma di alberi quando viene
l’inverno e perdono le foglie. Il tronco, a sezione cilindrica, si alza per tre metri e poi si divide in tre
parti che portano alla fine tre luci in policarbonato traslucido con riflettori
in alluminio puro. Resistenza agli agenti atmosferici e al vandalo come di
legge. Una luce fatta apposta. Un lampione per il Sodo. Ma questo lo sapeva
bene la Commissione.
La campana della Chiesa rintocco per
sette volte e mezzo e allora Oriano, il presidente, chiuse la visita e i lavori intellettivi del
gruppo. C’era da organizzare la sorpresa. Il furgone dell’Umberto era
attrezzato con scaleo della dovuta altezza e scatola dell’attrezzi. Le botteghe
di Giovanni e Filippo avevano fornito i premi. Il caffè dal Vanni l’avevano già
bevuto prima. C’era da montare i fili di plastica arancione. L’albero rosso del
Sodo, altezza metri tre nove fino allo snodo dei rami, era nel mezzo del crocicchio
a segnare fisicamente il centro del quartiere e il luogo degli appuntamenti.
C’era da andare all’albero.
C’era da montare l’albero della
cuccagna.
Nessun commento:
Posta un commento