Lettori fissi

29/10/20

Goraiolo

 

Goraiolo | 2019 -20

 

Non sapevo che ci fosse anche quello “alto”.

 

Da piccino avevo notizia di Montecatini perché c’andava a passare le acque la famiglia della cugina Sabrina di cui ero segretamente innamorato. C’ero anche stato in gita con la Parrocchia di Santa Lucia quando c’avevamo fatto sosta durante il pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Montenero. Giusto un giro di un’ora tra le Terme. Il tempo di una tazza d’acqua, bella piena di  bromo, calcio, cloro, iodio, litio, magnesio, potassio, sodio e solfato, oppure, io tra questi, una spettacolare colazione alla pasticceria Impero.

 

Giuro e spergiuro che la parte alta della città mi è stata lungamente ignota.

 

Almeno fin quando son cominciati gli spostamenti autonomi. Dopo i diciotto e a seguire ci son passato a fianco sotto la collina, percorrendo la Firenze - Mare, una miriade di volte. Una volta ci trovai la fidanzata. Era giusto del paese e bella molto. L’avevo incontrata in piazza dei Ciompi e fu amore al secondo sguardo visto che il primo lo consumai sopra al colore dei suoi occhi grigio verdi come il sottobosco il ventiquattro di ottobre. Peccato che per incontrarci, sempre a me toccava spostarmi. E occorreva una cifra di carburante che uno studente dei settanta non poteva permettersi. Ci lasciammo di buon grado e non ci siamo più nemmeno cercati neanche con i nuovi sistemi elettronico - virtuali.

 

Alcuni anni dopo si rammentarono quei luoghi durante un desinare.

 

In realtà era una cena a festeggiare il termine degli esami di fine anno. A quei tempi usava farne una ad ogni sessione d’esame. Di solito la sera e di regola in una trattoria nelle vicinanze di piazza Brunelleschi. Si mangiava e si ragionava d’architettura e non di rado ci si scambiavano battute e aneddoti. Rammento la sera del trenta giugno dell’ottantanove quando il tenutario del Corso raccontò che la sua famiglia aveva vissuto per generazioni coltivando un grande podere, assai produttivo, appena sotto l’abitato alto. Il Capoccia gestiva a bacchetta la casa e i suoi abitanti pontificando, su tutte le vicende della casa, in special modo durante il desinare della domenica. C’era una battuta che aveva fatto il giro della montagnola e questa ci raccontò il professore: Massaia: “ … O Primo … che la gradite un pochina d’insalata?” Capoccia; noto carnivoro e donnaiolo : “ Insalata?  … Erba … l’erba alle bestie … io mangio la ciccia!”

 

E giù tutti a ridere a bocca aperta.

 

In cima al poggio sopra la città delle Terme ci son tornato altre molte volte. Quasi sempre in compagnia di un amico con mi ha aiutato alla docenza di un corso universitario e un paio di concorsi d’idee. A fasi alterne  a cavallo tra la fine e l’inizio del millennio. Per un gelato, il suo matrimonio e il battesimo dei bambini. Questo per dire che conosco abbastanza il luogo Montecatini Alto da potermi permettere di dargli del tu.

 

Altre volte ci son transitato in basso per andare verso Marliana.

 

Ecco. Questo è un paese vicino di cui non ho cognizione o informazione alcuna. Per alcuni anni al tempo dell’università ci son passato da fuori sempre con l’intenzione del “… passa e vai ché tanto che ti fermi a fare?”. Poi scoprii che un caro amico aveva le chiavi di uno chalet appena fuori l’abitato di Goraiolo; amena località turistica forte di un centinaio di residenti che lievitano fino a più di cinquecento durante la buona stagione. Il paese è distante una quindicina di chilometri dal capoluogo ed è rinomato per l’aria buona e le sue foreste  secolari.

 

La casa era stata costruita da suo nonno materno a cavallo dei cinquanta.

 

Era un periodo di grandi rivolgimenti sociali e politici. Il costruttore, nato da quelle parti ma formatosi professionalmente intorno alla città del giglio, era tornato alle origini dopo aver imparato il mestiere di capomastro e aver ricevuto diverse gratificazioni economiche quando si era messo in proprio a costruir condomini lungo la strada per Sesto. Aveva quindi comprato un terreno a mezza costa poco distante dalla bottega del paese e scavato fondazioni e muri di pietra del resede. Poi, usando i semplici materiali del posto, nell’arco di un paio di estati, aiutato dal progetto disegnato su un quaderno a quadretti, frutto del missaggio di case costruite dall’impresa, aveva completato il resto della casa di villeggiatura usata lungamente  dalla numerosa famiglia nell’arco dei trent’anni successivi.

 

Alla scomparsa del muratore anche i figli l’avevano pian piano lasciata.

 

Come sia durante i primi anni ottanta il fabbricato era, ogni tanto, in uso al nostro anfitrione. Per molti di noi erano gli anni dell’università. Ancora persistevano i ritmi e le convenzioni del decennio precedente con riunioni, che adesso erano meno politiche e più operative nel campo della ricerca d’architettura. Quindi capitava spesso di trovarsi a ragionar di questo o di quell’altro progetto che c’aveva ispirato per i nostri esami. Erano anche i primi vagiti della “Milano da bere” e si sa che le mode del Nord scendono presto da noi. Ricapitolando ecco per sommi capi le condizioni al contorno: no politica, si riunioni e discussioni, sesso il giusto, molta voglia di festa e quattrini pochi.

 

Pro e contro considerati l’offerta del Goraiolo fu accettata al volo.

 

Durante l’autunno-inverno dell’ottantadue il casale ci ospitò più volte. A ricordo almeno tre e forse quattro con una media di ospiti che sfiorava i trenta. Naturalmente c’erano anche individui assolutamente non interessati al tema principale che ci si trovavano per altre occupazioni come passeggiar per boschi, tagliar legna, cercare funghi, fidanzamento, amicizia eccetera compreso la rinomata aria buona che aveva all’inizio stimolato la costruzione dell’edificio.

 

Al primo Goraiolo eravamo ventuno.

 

Eccoli a seguire in ordine casuale: a, b ,c, d, e, f, g, h, i, l, m, n, o, p, q, r, s, t, u, v, z, oltre al bracco Baldo. C’erano alcune coppie e c’erano gli eterni singoli insieme a chi era venuto per incontrare o per essere incontrato. Eterogenei anche negli interessi principali anche se, come già ricordato, la prima delle arti la faceva da padrone. Come sia nell’arco dei tre giorni si organizzarono seminari, proiezioni, laboratori di scrittura, taglio della legna, letture di poesia e passeggiate. Tutta questa cultura fu bilanciata dal passatempo preferito dell’italiano medio: grandi mangiate.

 

Memorabile fu quella a base di fritto misto.

 

Come sanno oramai anche i muri si dice che “ … fritta è buona pure una ciabatta”. E quel sabato sera di fine maggio lo confermarono pure i muri di quella che poi fu della battezzata osteria “da Omis”. Il mese della madonna è uno dei migliori per le grandi abbuffate a base di fritto. Il cielo era terso e il sole stava calando quando partirono le danze. Musica a palla e vino rosso delle più diverse provenienze: quello dozzinale del supermercato accostato alla bottiglia invecchiata una cifra oppure mischiato con quello avviato la settimana prima. Un delirio di liquidi. Da mangiare niente crostini o bruschette e neanche tortellini panna e prosciutto. No.

 

Niente di tutto ciò.

 

Fritto e basta. Si cominciò la preparazione verso le sei del pomeriggio pulendo, tagliuzzando, infarinando, sbattendo, impanando e quanto altro alla bisogna. Al battere dei sette tocchi della chiesina del paese furono accesi i fuochi della cucina, oltre a quello supplementare del fornello da campeggio, e l’olio super extra vergine del vicino oliveto principiò l’avventura. Prima scaldato poi sempre di più e infine a bollore alla giusta temperatura dei centocinquanta circa.

 

Fritto misto alla toscana.

 

Pollo e coniglio nostrali del contadino del podere di  Sottosopra. Frattaglie varie e verdure tutte. Tutte quelle disponibili nell’orto di nonno Nanni. E per non farsi mancare niente anche fette di pane toscano raffermo. Carta paglia per asciugare e sale in abbondanza. Alcuni cesti d’insalata riccia oltre a cetrioli  e pinzimoni vari per ripulire il palato.

 

Antichi vassoi di terraglia furono scoperti e arruolati alla bisogna.

 

Intanto il sole chiede permesso e se ne va a riposare. Son precise le otto e quarantatre. È il momento: “Si mangia ragazzi … uuu … in tavola … uuuu …” ulula il padron di casa salutando il gruppo dei giocatori di poker in rientro dal portico esterno.

 

E proprio uno di questi causò il dramma.

 

La prima avvisaglia durante la cena, per il resto alcolica e gioiosa, quando se ne uscì con questa infelice battuta: “ Buono … per carità … anzi complimenti a cucinieri e apparecchiatori … comunque bisogna ammettere che il “fritto alla ragnatela” della trattoria di Cercina ha un altro passo”. E con questo indispose più della metà degli astanti. “Quelli che … ”, come si dice da queste parti, “… hanno il buco torto”. Poi verso la fine, mentre giravano cantucci con vinsanto e la moka sul fuoco sobbolliva lentamente, successe il resto. Per far incazzare la comitiva tutta bastò un commento su Baldo; il meticcio trovato a dormire sotto la scala all’arrivo del giorno prima; che se ne stava tranquillo sotto il tavolo a sbafar avanzi. Per primo parti il doppio calcio; violento, intenzionale e assolutamente maligno: “ … Katum … katum …” seguito da “… pussa via brutto cagnaccio” oltre al preciso sputo di catarro giallo-verde evidentemente serbato alla bisogna.

 

Guaendo vistosamente il poverino schizzo fuori dalla porta aperta.

 

La festa era rovinata. Una serie di improperi al nostro eroe:  “ fanculo … pezzo di merda …  cervello avariato … ” e quant’altro possa venir in mente; confermarono la fine della serata. La prevista sessione di proiezione diapositive di un viaggio nel sud della Francia sulle tracce di Le Corbusier fu cancellata. A nessuno venne in mente di sistemare la cucina o mettere in ordine la tavola e soprattutto andare a cercare Baldo.

 

Per tutti il rumore che prevalse fu il “click” di spengi il cervello e la luce.

 

Si stesero lenzuoli su lettoni doppia piazza, si aprirono brande o lettini da campeggio e si posizionarono sacchi a pelo. L’unico bagno, di solito preso d’assalto e conteso all’arma bianca, fu usato con parsimonia e velocità inaspettata. In poco tempo ognuno si sistemò per la notte. A quel tempo la comitiva contava tre fidanzamenti stabili, due storie in corso oltre ad un paio di simpatie che avrebbero potuto sfociare in feroci accoppiamenti notturni. Ma niente sesso quella notte. Un buon samaritano passò di stanza in stanza a spegnere le luci e stop.

 

E comunque dopo nove mesi non ci furono fiocchi fuori dalla porta.

 

Il mattino lo passammo ciondolando per casa occupandoci a sistemare le stanze e i resti della festa. Verso l’ora di pranzo, che nessuno onorò, la comitiva si sciolse. Prima un giro per casa a controllare chiusure di porte, finestre e contatori. Dopo di ché fu il momento di caricar zaini, persone, cose e partire in fila indiana lungo lo sterro fino alla Comunale asfaltata.

 

C’erano sei normali automobili utilitarie e una Guzzi California nera.

 

Il fondo era sconnesso e pieno di buche. Il serpentone procedeva lento e guardingo. E poi le vedemmo. Alla terza svolta nel bosco le macchie di sangue spiccarono con evidenza sul tappeto erboso poco li a destra. Erano copiose e fresche e ci indussero alla sosta. Tutti scesero tranne il conducente della motocicletta troppo intento a piacersi nello specchietto retrovisore. Somigliava lontanamente al “damned Jim” morto ai ventisette e di questi scimmiottava alcuni atteggiamenti col risultato che stava sulla palle a gran parte della comitiva. Anzi se ci penso non ricordo chi l’aveva invitato considerato che se ne stava sovente in disparte rollando cicche puzzolenti o tracannare lo scadente rosso che si era portato. Forse si era semplicemente imboscato.

 

E basta.

 

Intanto, mentre il motociclista si lisciava i lunghi capelli corvini e si rimirava sopra la cromatura del serbatoio, il gruppo  saltò il fossato e accerchiò il lago rosso rubino. L’odore era nauseabondo e la vista non certo piacevole. Per questo il più debole di stomaco degli astanti; che sono io; si produsse nel numero del “lascio qui il caffè di stamattina” che finì preciso in terra al centro del liquido.

 

L’ipotesi dei più propense per sangue animale.

 

Magari era successo che i due calci, satanicamente potenti e vigliaccamente cattivi, avevano causato emorragie interne che poi erano sfociate in perdite dagli orifizi. Il poveretto allora si era rifugiato nel bosco per la notte e adesso scappava chissà dove. Per i venti riuniti  intorno alla pozza rosso violacea un fatto era certo: chiunque fosse il malcapitato non avrebbe vissuto abbastanza da vedere la prossima alba.

 

“È suo. È del bracco randagio. È di Baldo!”. Questo esclamammo all’unisono.

 

Risalimmo in macchina visibilmente tristi e anche un poco incattiviti con il motociclista che non aveva dato nessun segno di interesse o pentimento. “Che se ne andasse pure per i fatti suoi … all’inferno … potrebbe essere un buon posto”, pensai fra me e me mentre giravo la chiave dell’accensione della R4 color sabbia.

 

La fila si rimise in moto e lentamente si diresse verso la città.

 

Ci giungemmo al tramonto dopo diverse fermate tattiche per bisogni fisiologici e pianti vari. Ci salutammo all’inizio del raccordo in una piazzola di sosta poco prima dell’aeroporto di Peretola. Estremamente provati e tristi; alcuni in silenzio e altri con gli occhi ancora lucidi. Tutti molto arrabbiati, forse anche di più, con il provocatore del drammatico episodio.

 

Non li rivedemmo più. Non il bracco  Baldo e neanche il giocatore di carte.

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