Goraiolo | 2019 -20
Non sapevo che
ci fosse anche quello “alto”.
Da piccino avevo
notizia di Montecatini perché c’andava a passare le acque la famiglia della
cugina Sabrina di cui ero segretamente innamorato. C’ero anche stato in gita
con la Parrocchia di Santa Lucia quando c’avevamo fatto sosta durante il
pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Montenero. Giusto un giro di
un’ora tra le Terme. Il tempo di una tazza d’acqua, bella piena di bromo, calcio, cloro, iodio, litio, magnesio,
potassio, sodio e solfato, oppure, io tra questi, una spettacolare colazione
alla pasticceria Impero.
Giuro e
spergiuro che la parte alta della città mi è stata lungamente ignota.
Almeno fin
quando son cominciati gli spostamenti autonomi. Dopo i diciotto e a seguire ci
son passato a fianco sotto la collina, percorrendo la Firenze - Mare, una
miriade di volte. Una volta ci trovai la fidanzata. Era giusto del paese e
bella molto. L’avevo incontrata in piazza dei Ciompi e fu amore al secondo
sguardo visto che il primo lo consumai sopra al colore dei suoi occhi grigio
verdi come il sottobosco il ventiquattro di ottobre. Peccato che per
incontrarci, sempre a me toccava spostarmi. E occorreva una cifra di carburante
che uno studente dei settanta non poteva permettersi. Ci lasciammo di buon
grado e non ci siamo più nemmeno cercati neanche con i nuovi sistemi
elettronico - virtuali.
Alcuni anni dopo
si rammentarono quei luoghi durante un desinare.
In realtà era
una cena a festeggiare il termine degli esami di fine anno. A quei tempi usava farne
una ad ogni sessione d’esame. Di solito la sera e di regola in una trattoria
nelle vicinanze di piazza Brunelleschi. Si mangiava e si ragionava
d’architettura e non di rado ci si scambiavano battute e aneddoti. Rammento la
sera del trenta giugno dell’ottantanove quando il tenutario del Corso raccontò
che la sua famiglia aveva vissuto per generazioni coltivando un grande podere,
assai produttivo, appena sotto l’abitato alto. Il Capoccia gestiva a bacchetta
la casa e i suoi abitanti pontificando, su tutte le vicende della casa, in
special modo durante il desinare della domenica. C’era una battuta che aveva
fatto il giro della montagnola e questa ci raccontò il professore: Massaia: “ …
O Primo … che la gradite un pochina d’insalata?” Capoccia; noto carnivoro e
donnaiolo : “ Insalata? … Erba … l’erba
alle bestie … io mangio la ciccia!”
E giù tutti a
ridere a bocca aperta.
In cima al
poggio sopra la città delle Terme ci son tornato altre molte volte. Quasi
sempre in compagnia di un amico con mi ha aiutato alla docenza di un corso
universitario e un paio di concorsi d’idee. A fasi alterne a cavallo tra la fine e l’inizio del
millennio. Per un gelato, il suo matrimonio e il battesimo dei bambini. Questo
per dire che conosco abbastanza il luogo Montecatini Alto da potermi permettere
di dargli del tu.
Altre volte ci
son transitato in basso per andare verso Marliana.
Ecco. Questo è
un paese vicino di cui non ho cognizione o informazione alcuna. Per alcuni anni
al tempo dell’università ci son passato da fuori sempre con l’intenzione del “…
passa e vai ché tanto che ti fermi a fare?”. Poi scoprii che un caro amico
aveva le chiavi di uno chalet appena fuori l’abitato di Goraiolo; amena
località turistica forte di un centinaio di residenti che lievitano fino a più
di cinquecento durante la buona stagione. Il paese è distante una quindicina di
chilometri dal capoluogo ed è rinomato per l’aria buona e le sue foreste secolari.
La casa era
stata costruita da suo nonno materno a cavallo dei cinquanta.
Era un periodo
di grandi rivolgimenti sociali e politici. Il costruttore, nato da quelle parti
ma formatosi professionalmente intorno alla città del giglio, era tornato alle
origini dopo aver imparato il mestiere di capomastro e aver ricevuto diverse
gratificazioni economiche quando si era messo in proprio a costruir condomini
lungo la strada per Sesto. Aveva quindi comprato un terreno a mezza costa poco
distante dalla bottega del paese e scavato fondazioni e muri di pietra del
resede. Poi, usando i semplici materiali del posto, nell’arco di un paio di
estati, aiutato dal progetto disegnato su un quaderno a quadretti, frutto del
missaggio di case costruite dall’impresa, aveva completato il resto della casa
di villeggiatura usata lungamente dalla
numerosa famiglia nell’arco dei trent’anni successivi.
Alla scomparsa
del muratore anche i figli l’avevano pian piano lasciata.
Come sia durante
i primi anni ottanta il fabbricato era, ogni tanto, in uso al nostro
anfitrione. Per molti di noi erano gli anni dell’università. Ancora
persistevano i ritmi e le convenzioni del decennio precedente con riunioni, che
adesso erano meno politiche e più operative nel campo della ricerca
d’architettura. Quindi capitava spesso di trovarsi a ragionar di questo o di
quell’altro progetto che c’aveva ispirato per i nostri esami. Erano anche i
primi vagiti della “Milano da bere” e si sa che le mode del Nord scendono
presto da noi. Ricapitolando ecco per sommi capi le condizioni al contorno: no
politica, si riunioni e discussioni, sesso il giusto, molta voglia di festa e
quattrini pochi.
Pro e contro
considerati l’offerta del Goraiolo fu accettata al volo.
Durante
l’autunno-inverno dell’ottantadue il casale ci ospitò più volte. A ricordo
almeno tre e forse quattro con una media di ospiti che sfiorava i trenta.
Naturalmente c’erano anche individui assolutamente non interessati al tema
principale che ci si trovavano per altre occupazioni come passeggiar per
boschi, tagliar legna, cercare funghi, fidanzamento, amicizia eccetera compreso
la rinomata aria buona che aveva all’inizio stimolato la costruzione
dell’edificio.
Al primo
Goraiolo eravamo ventuno.
Eccoli a seguire
in ordine casuale: a, b ,c, d, e, f, g, h, i, l, m, n, o, p, q, r, s, t, u, v,
z, oltre al bracco Baldo. C’erano alcune coppie e c’erano gli eterni singoli
insieme a chi era venuto per incontrare o per essere incontrato. Eterogenei
anche negli interessi principali anche se, come già ricordato, la prima delle
arti la faceva da padrone. Come sia nell’arco dei tre giorni si organizzarono seminari,
proiezioni, laboratori di scrittura, taglio della legna, letture di poesia e
passeggiate. Tutta questa cultura fu bilanciata dal passatempo preferito
dell’italiano medio: grandi mangiate.
Memorabile fu
quella a base di fritto misto.
Come sanno oramai
anche i muri si dice che “ … fritta è buona pure una ciabatta”. E quel sabato
sera di fine maggio lo confermarono pure i muri di quella che poi fu della
battezzata osteria “da Omis”. Il mese della madonna è uno dei migliori per le
grandi abbuffate a base di fritto. Il cielo era terso e il sole stava calando
quando partirono le danze. Musica a palla e vino rosso delle più diverse
provenienze: quello dozzinale del supermercato accostato alla bottiglia
invecchiata una cifra oppure mischiato con quello avviato la settimana prima.
Un delirio di liquidi. Da mangiare niente crostini o bruschette e neanche
tortellini panna e prosciutto. No.
Niente di tutto
ciò.
Fritto e basta.
Si cominciò la preparazione verso le sei del pomeriggio pulendo, tagliuzzando,
infarinando, sbattendo, impanando e quanto altro alla bisogna. Al battere dei
sette tocchi della chiesina del paese furono accesi i fuochi della cucina,
oltre a quello supplementare del fornello da campeggio, e l’olio super extra
vergine del vicino oliveto principiò l’avventura. Prima scaldato poi sempre di
più e infine a bollore alla giusta temperatura dei centocinquanta circa.
Fritto misto
alla toscana.
Pollo e coniglio
nostrali del contadino del podere di
Sottosopra. Frattaglie varie e verdure tutte. Tutte quelle disponibili
nell’orto di nonno Nanni. E per non farsi mancare niente anche fette di pane
toscano raffermo. Carta paglia per asciugare e sale in abbondanza. Alcuni cesti
d’insalata riccia oltre a cetrioli e
pinzimoni vari per ripulire il palato.
Antichi vassoi
di terraglia furono scoperti e arruolati alla bisogna.
Intanto il sole
chiede permesso e se ne va a riposare. Son precise le otto e quarantatre. È il
momento: “Si mangia ragazzi … uuu … in tavola … uuuu …” ulula il padron di casa
salutando il gruppo dei giocatori di poker in rientro dal portico esterno.
E proprio uno di
questi causò il dramma.
La prima
avvisaglia durante la cena, per il resto alcolica e gioiosa, quando se ne uscì
con questa infelice battuta: “ Buono … per carità … anzi complimenti a
cucinieri e apparecchiatori … comunque bisogna ammettere che il “fritto alla
ragnatela” della trattoria di Cercina ha un altro passo”. E con questo
indispose più della metà degli astanti. “Quelli che … ”, come si dice da queste
parti, “… hanno il buco torto”. Poi verso la fine, mentre giravano cantucci con
vinsanto e la moka sul fuoco sobbolliva lentamente, successe il resto. Per far
incazzare la comitiva tutta bastò un commento su Baldo; il meticcio trovato a
dormire sotto la scala all’arrivo del giorno prima; che se ne stava tranquillo
sotto il tavolo a sbafar avanzi. Per primo parti il doppio calcio; violento,
intenzionale e assolutamente maligno: “ … Katum … katum …” seguito da “… pussa
via brutto cagnaccio” oltre al preciso sputo di catarro giallo-verde
evidentemente serbato alla bisogna.
Guaendo
vistosamente il poverino schizzo fuori dalla porta aperta.
La festa era
rovinata. Una serie di improperi al nostro eroe: “ fanculo … pezzo di merda … cervello avariato … ” e quant’altro possa venir
in mente; confermarono la fine della serata. La prevista sessione di proiezione
diapositive di un viaggio nel sud della Francia sulle tracce di Le Corbusier fu
cancellata. A nessuno venne in mente di sistemare la cucina o mettere in ordine
la tavola e soprattutto andare a cercare Baldo.
Per tutti il
rumore che prevalse fu il “click” di spengi il cervello e la luce.
Si stesero
lenzuoli su lettoni doppia piazza, si aprirono brande o lettini da campeggio e
si posizionarono sacchi a pelo. L’unico bagno, di solito preso d’assalto e
conteso all’arma bianca, fu usato con parsimonia e velocità inaspettata. In
poco tempo ognuno si sistemò per la notte. A quel tempo la comitiva contava tre
fidanzamenti stabili, due storie in corso oltre ad un paio di simpatie che
avrebbero potuto sfociare in feroci accoppiamenti notturni. Ma niente sesso
quella notte. Un buon samaritano passò di stanza in stanza a spegnere le luci e
stop.
E comunque dopo
nove mesi non ci furono fiocchi fuori dalla porta.
Il mattino lo
passammo ciondolando per casa occupandoci a sistemare le stanze e i resti della
festa. Verso l’ora di pranzo, che nessuno onorò, la comitiva si sciolse. Prima
un giro per casa a controllare chiusure di porte, finestre e contatori. Dopo di
ché fu il momento di caricar zaini, persone, cose e partire in fila indiana
lungo lo sterro fino alla Comunale asfaltata.
C’erano sei
normali automobili utilitarie e una Guzzi California nera.
Il fondo era
sconnesso e pieno di buche. Il serpentone procedeva lento e guardingo. E poi le
vedemmo. Alla terza svolta nel bosco le macchie di sangue spiccarono con
evidenza sul tappeto erboso poco li a destra. Erano copiose e fresche e ci
indussero alla sosta. Tutti scesero tranne il conducente della motocicletta
troppo intento a piacersi nello specchietto retrovisore. Somigliava
lontanamente al “damned Jim” morto ai ventisette e di questi scimmiottava alcuni
atteggiamenti col risultato che stava sulla palle a gran parte della comitiva.
Anzi se ci penso non ricordo chi l’aveva invitato considerato che se ne stava
sovente in disparte rollando cicche puzzolenti o tracannare lo scadente rosso
che si era portato. Forse si era semplicemente imboscato.
E basta.
Intanto, mentre
il motociclista si lisciava i lunghi capelli corvini e si rimirava sopra la
cromatura del serbatoio, il gruppo saltò
il fossato e accerchiò il lago rosso rubino. L’odore era nauseabondo e la vista
non certo piacevole. Per questo il più debole di stomaco degli astanti; che
sono io; si produsse nel numero del “lascio qui il caffè di stamattina” che
finì preciso in terra al centro del liquido.
L’ipotesi dei
più propense per sangue animale.
Magari era
successo che i due calci, satanicamente potenti e vigliaccamente cattivi,
avevano causato emorragie interne che poi erano sfociate in perdite dagli
orifizi. Il poveretto allora si era rifugiato nel bosco per la notte e adesso
scappava chissà dove. Per i venti riuniti
intorno alla pozza rosso violacea un fatto era certo: chiunque fosse il
malcapitato non avrebbe vissuto abbastanza da vedere la prossima alba.
“È suo. È del
bracco randagio. È di Baldo!”. Questo esclamammo all’unisono.
Risalimmo in
macchina visibilmente tristi e anche un poco incattiviti con il motociclista
che non aveva dato nessun segno di interesse o pentimento. “Che se ne andasse
pure per i fatti suoi … all’inferno … potrebbe essere un buon posto”, pensai
fra me e me mentre giravo la chiave dell’accensione della R4 color sabbia.
La fila si
rimise in moto e lentamente si diresse verso la città.
Ci giungemmo al
tramonto dopo diverse fermate tattiche per bisogni fisiologici e pianti vari.
Ci salutammo all’inizio del raccordo in una piazzola di sosta poco prima
dell’aeroporto di Peretola. Estremamente provati e tristi; alcuni in silenzio e
altri con gli occhi ancora lucidi. Tutti molto arrabbiati, forse anche di più,
con il provocatore del drammatico episodio.
Non li rivedemmo
più. Non il bracco Baldo e neanche il
giocatore di carte.
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