E poi | 2004
Ne ho viste di
storie che voi umani non potete immaginare.
Sono nata cento
e passa anni fa e da allora ne son successe di cose. Il mio tempo è segnato
dagli anelli concentrici che si aggiungono anno per anno al mio centro. Ogni
anno mi fortifico un po’ di più. Da fragile e piccola che ero son diventata
forte e adulta. Penso quindi sono. Sono l’albero fuori le mura. Un seme
disperso nel vento mi ha fatto atterrare qui dove ho messo radici e attinto la
linfa dal fossato che scorreva appena fuori il muro di pietra. Il muro, come
tutte le cose costruite da voi umani, è poi crollato. Incidente; incuria, lo scorrere
del tempo o che so io.
Ma è crollato.
E poi è stata la
volta della Porta che segnava il limite tra il dentro e il fuori. In nome del
progresso ho visto gli operai montare i ponteggi di legno e smontare pietra a
pietra la porta che, devo dire, mi era diventata amica. Certe notti d’estate
parlavamo per ore e ci raccontavamo a vicenda i fatti del giorno. Quanti carri
erano transitati e che merci portavano: botti di vino, sacchi di frumento,
fasci di fascine. Io per parte mia raccontavo degli uccelli che si erano posati
sui miei rami e delle storie che mi narravano oppure, certe volte, dei loro
piccoli che mi lasciavano da badare. Raccontavo anche a voi il lento scorrere
delle stagioni. In autunno perdevo le mie grandi foglie e d’inverno mi
addormentavo. In primavera arrivavano le rondini a svegliarmi. Le miei gemme
diventavano grosse e gonfie di vita e sbocciavano in grandi fiori bianchi che
mi coloravano la chioma. Durante l’estate la mia ombra vi serviva per ripararvi
dal sole e la sera i fidanzati si appoggiavano al mio tronco per sussurrarsi
parole di amore eterno.
Quante ne ho
viste.
E poi ricordo
ancora come fosse oggi di quella volta che la Beatrice sorprese il Dante che
amoreggiava con l’Italia. Quante ingiurie uscirono dalla sua bocca. Ancora
divento rossa al ricordo. Con il Cassero invece non parlavo. Troppo austero. Si
credeva importante perché di origini nobili. La famiglia che l’aveva costruito
veniva da Firenze e anche loro erano molto riservati. Veramente delle persone
scorbutiche. Ma tutto passa. Il tempo fa giustizia. E poi un giorno costruirono
uno spiazzo intitolato al Popolo e ci misero una tettoia. Ci si svolgeva il
mercato dei polli e devo dire che anche loro mi facevano la loro bella compagnia
starnazzandomi intorno. I pennuti erano tanti ma cambiavano continuamente e
allora non ricordo il nome di nessuno di essi.
E poi un certo
punto mi ricordo che arrivarono gli agrimensori con i loro strani strumenti
ottici che poggiano su tre piedi. I geometri cominciarono a misurare e tirare
corde: angoli e raccordi; ellissi e paline. Costruirono la piazza che fu
battezzata a ricordare una grande battaglia in posti lontani. Usarono il mio
tronco per far centro al disegno del quadrilatero e da allora mi sono sentita un po’ più
importante. Quegli anni furono importanti. Il paese cresceva e si abbelliva.
Furono sistemate le case intorno a me e altre se ne aggiunsero di nuove. E poi
piantarono un filare di tigli che ho visto crescere come dei nipoti e con cui ho
scambiato notizie e impressioni per alcuni decenni anche se non c’è stato mai
un grande rapporto vista la diversità della specie. Insieme alla costruzione
della piazza furono piantati i sei abetoni che mi circondano e mi fanno
compagnia anche se, devo dire, in verità il loro linguaggio di montagna è
troppo semplice per una cittadina come me.
E poi insieme
agli alberi arrivò lui.
Il mio amore:
Giuseppe. In verità era solo un bronzo e neanche tutto intero. Un bel busto in
bronzo luccicante con cui parlavo per ore. Mi raccontava di quando era tutto
intero e girava per la penisola a infiammare la gente con i suoi discorsi
rivoluzionari. E poi ho visto costruire il colonnato in pietra li davanti che è
stato coperto e pavimentato. Ma la sua forma e soprattutto i suoi vuoti
disperdevano le parole portate dal vento e non riuscivamo a comunicare.
E poi qualcuno
di voi, forse un podestà, ebbe la brillante idea di sostituire il mio Giuseppe
con una copia in travertino e di buttare al fiume il mio amato che iniziò ad arrugginire e, irrimediabilmente, smise di
parlarmi. E poi ricordo quel villino d’angolo con la torretta circolare. Tutto
stucchi e cornici che pareva un gigolò. Non sono mai riuscita a scambiare più
di due parole: “… buongiorno e buonasera
…” ; si dava certe arie e si credeva chissà che. Adesso è tutto sbrecciato
e sotto il tetto della torretta ci piove anche.
E poi un giorno
arrivarono gli uomini in nero.
Vestivano con
camicie e fez e portavano bastoni. Mi ricordo di quello grosso con la barba e
il petto villoso che guidava il camion. Una sera parcheggiarono vicino alle
logge e si nascosero all’ombra delle colonne. Si mostrarono appena giunse il
Giovanni che tornava da una riunione sindacale. Lo fecero nero di botte e rosso
di sangue che mancò poco non rendesse l’anima.
E poi ancora,
circa vent’anni dopo, la piazza fu occupata da altri uomini con le uniformi
grigioverdi; con l’elmetto in testa e il mitra a spalla. Parlavano una lingua
straniera e avevano un’aria truce e arrabbiata. Era tutto in gridare ordini
gutturali: “… schnell … achtung …
partigiani banditi … dieci di voi per
uno di noi ….” Erano alla ricerca dei fiancheggiatori dei ribelli che
stavano nelle montagne li vicino. Ho saputo dopo che gli stranieri furono
cacciati dagli stessi ribelli che vestivano in borghese ma si riconoscevano per
il fazzoletto rosso che portavano al collo.
E poi un giorno;
ricordo che era primavera inoltrata; le strade intorno alla piazza furono
percorse da una folla festante che accompagnava un plotone di soldati; anche
loro in grigioverde e anche loro armati; che biascicavano strani pezzi di gomma
e lanciavano sassi marroni. I bambini in festa li raccattavano da terra e
masticavano beati tutto quel ben di Dio. I liberatori sorridevano blaterando: “… hello boys … hello girls … come on …” tendendo
le mani dai carri armati con la stella bianca. Dai discorsi della gente si
capiva che era finita una brutta guerra e le aspettative erano molteplici. Si
ragionava del re e della repubblica e di un paese da ricostruire. Il paese fu
ricostruito più bello e splendente di prima. Le strade furono lastricate con
una strana pasta nera che induriva quasi subito. Asfalto mi pare si chiamasse e
la gente ci camminava sopra tutta contenta.
E poi ancora la
piazza cominciò ad essere invasa tutti i giorni dalle automobili. C’è ne erano
di piccole e di grandi; di rosse e di nere; di gialle e di verdi ma tutte
vomitavano buon cibo. E poi ancora i figli dei costruttori decisero che era
giunta l’ora di protestare contro i padri e inscenarono cortei e manifestazioni
contro i governanti con lo slogan: “… la
fantasia al potere …” Striscioni e bandiere per anni colorarono la piazza.
E poi ho visto la piazza abbandonata dalla gente del luogo per rinchiudersi in
casa davanti alla scatola che emette suoni, luci e colori. E poi ancora la
piazza è tornata ad essere abitata da genti che vengono da altri paesi ed hanno
la pelle meno pallida della vostra e un idioma a me sconosciuto. La piazza è
ritornata a vivere e le mie fronde ombreggiano i loro appuntamenti.
E poi … .
E poi basta che
mi preme raccontarvi un fatto sentito l’altro ieri. Alcuni giovani con carte e
macchine fotografiche si presentano sotto i miei rami e si siedono sui massi
dell’aiuola a discutere. La femmina inizia: “…
ho letto le risposte ai quesiti e pare che gli alberi non siano troppo
importanti. Secondo me si può pensare di levarli tutti dalle scatole …” Dai
discorsi successivi capisco che si tratta di un gruppo che, come altri visti
nei giorni passati, è chiamato a ridisegnare la piazza che mi sta intorno.
Evidentemente ragionano delle possibilità progettuali e della griglia di idee
entro le quali si può muovere la loro proposta.
Io cerco di
parlargli e far sentire la mia voce.
Ma sono ormai
vecchia e le miei flebili parole, sussurrate nel vento, si disperdono nel
sottofondo di rumori della piazza che è ormai usata come una grande rotatoria
per le auto che la hanno definitivamente occupata. E poi non c’è peggior sordo
di chi non vuol sentire. La ragazza pare stia prendendo il sopravvento sui
ragionamenti di quello pelato che sostiene che: “… forse, viste le
caratteristiche del luogo … eccetera … si potrebbe pensare di non sradicare gli
alberi ma integrarli nel progetto …”. Parole … parole … parole …; penso io; che
lasciano il tempo che trovano. Ma improvvisamente quello magrolino con gli
occhiali a fondo di bicchiere e il farfallino se ne esce con :”… ragazzi … zitti tutti … che mi sta
venendo un’idea in diretta e ora provo a raccontarvela …” E attacca: “Le analisi le abbiamo fatte. Le somme le
abbiamo tirate. Il disegno dello spazio è abbozzato. Adesso ci manca solo la
mossa che faccia girare il progetto che provo a raccontare tutto d’un fiato
così come mi viene. Le strade per prime: quelle esterne al recinto storico sono
finite ad asfalto e servono per la circolazione delle macchine mentre quelle
dentro l’ovale sono in pietra. La grande fontana circolare in pietra bianca è
piazzata sugli incroci degli assi principali. Qui si orientano le auto e qui si
è orientato il progetto. Le sue direttrici segnano e rendono evidenti gli
elementi principali: il busto del Mazzini ri-collocato in sintonia con la
piazzetta a cui da il nome; il grande porticato con la sosta degli autobus; le
fondamenta della porta e delle mura storiche; la vasca con le sedute, la
fontina e l’abbeveratoio per i polli in
bronzo sul bordo della piazza ; il doppio filare di tigli lungo la strada; il
gruppo di alberi in metallo con la piazzetta davanti al Cassero. E poi la
grande curva bianca su cui siedono le luci e le panche e la griglia di pietra
che ordina la piazza. Ma adesso sentite la mossa. Eccola. E poi si potrebbe
lasciare l’alberone che sta nel mezzo e trasformarlo in un segnale urbano. Ci
si mette sotto una base per sedere e delle luci che illuminano sotto e intorno.
Si potano i rami e lo si rimette a nuovo. Ecco il nuovo abitatore della piazza:
la magnolia.”
E io; che mi
chiamo Lia e di cognome faccio Magno: speriamo!
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