Lettori fissi

05/11/20

E poi

 

E poi | 2004

 

Ne ho viste di storie che voi umani non potete immaginare.

 

Sono nata cento e passa anni fa e da allora ne son successe di cose. Il mio tempo è segnato dagli anelli concentrici che si aggiungono anno per anno al mio centro. Ogni anno mi fortifico un po’ di più. Da fragile e piccola che ero son diventata forte e adulta. Penso quindi sono. Sono l’albero fuori le mura. Un seme disperso nel vento mi ha fatto atterrare qui dove ho messo radici e attinto la linfa dal fossato che scorreva appena fuori il muro di pietra. Il muro, come tutte le cose costruite da voi umani, è poi crollato. Incidente; incuria, lo scorrere del tempo o che so io.

 

Ma è crollato.

 

E poi è stata la volta della Porta che segnava il limite tra il dentro e il fuori. In nome del progresso ho visto gli operai montare i ponteggi di legno e smontare pietra a pietra la porta che, devo dire, mi era diventata amica. Certe notti d’estate parlavamo per ore e ci raccontavamo a vicenda i fatti del giorno. Quanti carri erano transitati e che merci portavano: botti di vino, sacchi di frumento, fasci di fascine. Io per parte mia raccontavo degli uccelli che si erano posati sui miei rami e delle storie che mi narravano oppure, certe volte, dei loro piccoli che mi lasciavano da badare. Raccontavo anche a voi il lento scorrere delle stagioni. In autunno perdevo le mie grandi foglie e d’inverno mi addormentavo. In primavera arrivavano le rondini a svegliarmi. Le miei gemme diventavano grosse e gonfie di vita e sbocciavano in grandi fiori bianchi che mi coloravano la chioma. Durante l’estate la mia ombra vi serviva per ripararvi dal sole e la sera i fidanzati si appoggiavano al mio tronco per sussurrarsi parole di amore eterno.

 

Quante ne ho viste.

 

E poi ricordo ancora come fosse oggi di quella volta che la Beatrice sorprese il Dante che amoreggiava con l’Italia. Quante ingiurie uscirono dalla sua bocca. Ancora divento rossa al ricordo. Con il Cassero invece non parlavo. Troppo austero. Si credeva importante perché di origini nobili. La famiglia che l’aveva costruito veniva da Firenze e anche loro erano molto riservati. Veramente delle persone scorbutiche. Ma tutto passa. Il tempo fa giustizia. E poi un giorno costruirono uno spiazzo intitolato al Popolo e ci misero una tettoia. Ci si svolgeva il mercato dei polli e devo dire che anche loro mi facevano la loro bella compagnia starnazzandomi intorno. I pennuti erano tanti ma cambiavano continuamente e allora non ricordo il nome di nessuno di essi.

 

E poi un certo punto mi ricordo che arrivarono gli agrimensori con i loro strani strumenti ottici che poggiano su tre piedi. I geometri cominciarono a misurare e tirare corde: angoli e raccordi; ellissi e paline. Costruirono la piazza che fu battezzata a ricordare una grande battaglia in posti lontani. Usarono il mio tronco per far centro al disegno del quadrilatero e  da allora mi sono sentita un po’ più importante. Quegli anni furono importanti. Il paese cresceva e si abbelliva. Furono sistemate le case intorno a me e altre se ne aggiunsero di nuove. E poi piantarono un filare di tigli che ho visto crescere come dei nipoti e con cui ho scambiato notizie e impressioni per alcuni decenni anche se non c’è stato mai un grande rapporto vista la diversità della specie. Insieme alla costruzione della piazza furono piantati i sei abetoni che mi circondano e mi fanno compagnia anche se, devo dire, in verità il loro linguaggio di montagna è troppo semplice per una cittadina come me.

 

E poi insieme agli alberi arrivò lui.

 

Il mio amore: Giuseppe. In verità era solo un bronzo e neanche tutto intero. Un bel busto in bronzo luccicante con cui parlavo per ore. Mi raccontava di quando era tutto intero e girava per la penisola a infiammare la gente con i suoi discorsi rivoluzionari. E poi ho visto costruire il colonnato in pietra li davanti che è stato coperto e pavimentato. Ma la sua forma e soprattutto i suoi vuoti disperdevano le parole portate dal vento e non riuscivamo a comunicare.

 

E poi qualcuno di voi, forse un podestà, ebbe la brillante idea di sostituire il mio Giuseppe con una copia in travertino e di buttare al fiume il mio amato che iniziò  ad arrugginire e, irrimediabilmente, smise di parlarmi. E poi ricordo quel villino d’angolo con la torretta circolare. Tutto stucchi e cornici che pareva un gigolò. Non sono mai riuscita a scambiare più di due parole: “… buongiorno e buonasera …” ; si dava certe arie e si credeva chissà che. Adesso è tutto sbrecciato e sotto il tetto della torretta ci piove anche.

 

E poi un giorno arrivarono gli uomini in nero.

 

Vestivano con camicie e fez e portavano bastoni. Mi ricordo di quello grosso con la barba e il petto villoso che guidava il camion. Una sera parcheggiarono vicino alle logge e si nascosero all’ombra delle colonne. Si mostrarono appena giunse il Giovanni che tornava da una riunione sindacale. Lo fecero nero di botte e rosso di sangue che mancò poco non rendesse l’anima.

 

E poi ancora, circa vent’anni dopo, la piazza fu occupata da altri uomini con le uniformi grigioverdi; con l’elmetto in testa e il mitra a spalla. Parlavano una lingua straniera e avevano un’aria truce e arrabbiata. Era tutto in gridare ordini gutturali: “… schnell … achtung … partigiani banditi  … dieci di voi per uno di noi ….” Erano alla ricerca dei fiancheggiatori dei ribelli che stavano nelle montagne li vicino. Ho saputo dopo che gli stranieri furono cacciati dagli stessi ribelli che vestivano in borghese ma si riconoscevano per il fazzoletto rosso che portavano al collo.

 

E poi un giorno; ricordo che era primavera inoltrata; le strade intorno alla piazza furono percorse da una folla festante che accompagnava un plotone di soldati; anche loro in grigioverde e anche loro armati; che biascicavano strani pezzi di gomma e lanciavano sassi marroni. I bambini in festa li raccattavano da terra e masticavano beati tutto quel ben di Dio. I liberatori sorridevano blaterando: “… hello boys … hello girls … come on …” tendendo le mani dai carri armati con la stella bianca. Dai discorsi della gente si capiva che era finita una brutta guerra e le aspettative erano molteplici. Si ragionava del re e della repubblica e di un paese da ricostruire. Il paese fu ricostruito più bello e splendente di prima. Le strade furono lastricate con una strana pasta nera che induriva quasi subito. Asfalto mi pare si chiamasse e la gente ci camminava sopra tutta contenta.

 

E poi ancora la piazza cominciò ad essere invasa tutti i giorni dalle automobili. C’è ne erano di piccole e di grandi; di rosse e di nere; di gialle e di verdi ma tutte vomitavano buon cibo. E poi ancora i figli dei costruttori decisero che era giunta l’ora di protestare contro i padri e inscenarono cortei e manifestazioni contro i governanti con lo slogan: “… la fantasia al potere …” Striscioni e bandiere per anni colorarono la piazza. E poi ho visto la piazza abbandonata dalla gente del luogo per rinchiudersi in casa davanti alla scatola che emette suoni, luci e colori. E poi ancora la piazza è tornata ad essere abitata da genti che vengono da altri paesi ed hanno la pelle meno pallida della vostra e un idioma a me sconosciuto. La piazza è ritornata a vivere e le mie fronde ombreggiano i loro appuntamenti.

 

E poi … .

 

E poi basta che mi preme raccontarvi un fatto sentito l’altro ieri. Alcuni giovani con carte e macchine fotografiche si presentano sotto i miei rami e si siedono sui massi dell’aiuola a discutere. La femmina inizia: “… ho letto le risposte ai quesiti e pare che gli alberi non siano troppo importanti. Secondo me si può pensare di levarli tutti dalle scatole …” Dai discorsi successivi capisco che si tratta di un gruppo che, come altri visti nei giorni passati, è chiamato a ridisegnare la piazza che mi sta intorno. Evidentemente ragionano delle possibilità progettuali e della griglia di idee entro le quali si può muovere la loro proposta.

 

Io cerco di parlargli e far sentire la mia voce.

 

Ma sono ormai vecchia e le miei flebili parole, sussurrate nel vento, si disperdono nel sottofondo di rumori della piazza che è ormai usata come una grande rotatoria per le auto che la hanno definitivamente occupata. E poi non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. La ragazza pare stia prendendo il sopravvento sui ragionamenti di quello pelato che sostiene che: “… forse, viste le caratteristiche del luogo … eccetera … si potrebbe pensare di non sradicare gli alberi ma integrarli nel progetto …”. Parole … parole … parole …; penso io; che lasciano il tempo che trovano. Ma improvvisamente quello magrolino con gli occhiali a fondo di bicchiere e il farfallino se ne esce con :”… ragazzi … zitti tutti … che mi sta venendo un’idea in diretta e ora provo a raccontarvela …” E attacca: “Le analisi le abbiamo fatte. Le somme le abbiamo tirate. Il disegno dello spazio è abbozzato. Adesso ci manca solo la mossa che faccia girare il progetto che provo a raccontare tutto d’un fiato così come mi viene. Le strade per prime: quelle esterne al recinto storico sono finite ad asfalto e servono per la circolazione delle macchine mentre quelle dentro l’ovale sono in pietra. La grande fontana circolare in pietra bianca è piazzata sugli incroci degli assi principali. Qui si orientano le auto e qui si è orientato il progetto. Le sue direttrici segnano e rendono evidenti gli elementi principali: il busto del Mazzini ri-collocato in sintonia con la piazzetta a cui da il nome; il grande porticato con la sosta degli autobus; le fondamenta della porta e delle mura storiche; la vasca con le sedute, la fontina  e l’abbeveratoio per i polli in bronzo sul bordo della piazza ; il doppio filare di tigli lungo la strada; il gruppo di alberi in metallo con la piazzetta davanti al Cassero. E poi la grande curva bianca su cui siedono le luci e le panche e la griglia di pietra che ordina la piazza. Ma adesso sentite la mossa. Eccola. E poi si potrebbe lasciare l’alberone che sta nel mezzo e trasformarlo in un segnale urbano. Ci si mette sotto una base per sedere e delle luci che illuminano sotto e intorno. Si potano i rami e lo si rimette a nuovo. Ecco il nuovo abitatore della piazza: la magnolia.”

 

E io; che mi chiamo Lia e di cognome faccio Magno: speriamo!

 

Nessun commento:

Posta un commento

La scappata

La scappata | 2021 Il sedici del quarto si decisero a cercarlo. Se n’era andato verso la fine dell’estate precedente con famiglia, animal...