Lettori fissi

15/10/20

Non ci va

 


Non ci va | 2019

 

Se fosse possibile ricavare un immagine la potrei stampare.

 

Purtroppo non risulta fattibile, allo stato dell’arte, ricavare una fotografia di una scena che ci compare in testa. E se è per questo neanche di un video. Tutto questo è ancora una faccenda privata e personale. In barba a tutte le pellicole e libri che c’hanno inquinato l’adolescenza, anche il seguito se per questo, non risulta praticabile che un qualunque esploratore della psiche ti infili in testa una pennetta usb e se ne vada via con alcuni tuoi nitidi ricordi. E li possa poi condividere con il resto dell’umano creato.

 

No. Credo proprio che la tecnologia corrente non possa eseguire l’operazione.

 

Magari però mentre noi ci sbattiamo a leggere, in verità io a scrivere, queste banalissime frasi da qualche parte del globo; nella steppa siberiana o nella giungla amazzonica piuttosto che nella stazione spaziale internazionale un mister ics dotato del giusto genio ce l’ha fatta proprio oggi.  Adesso è allo stato della sperimentazione ma entro l’anno troveremo in vendita sul web il kit per estrarre pensieri e parole e immagini dal nostro cervello. E addirittura poterli riprodurre, stampare e anche condividere su Instagram. Chissà!

 

La scena si diceva. È nitida. Ieri notte l’ho rivista precisa identica. Eccola.

 

Primi anni ottanta in Firenze a casa di studenti fuori sede. Piano terreno rialzato con sottofondo di “frenata, fermata, ripartenza” del’autobus linea numero sei. Tre camere; due doppie e una singola più bagno stretto e lungo, comunque dotato di vasca, oltre a cucina abitabile con accesso alla scaletta del giardino sul retro.  Uno dei cinque occupanti proviene dalla “bassa” ma d’altronde anche gli altri son del contado. Il nostro eroe ha appena perso la casa abitata per i primi anni d’università. E l’ha persa in maniera imprevista e improvvisa. Non è questa la sede per raccontare la vicenda e infatti saltiamola.  Comunque sia è rimasto in strada, come si suol dire, con armi e bagagli. Per sua fortuna, anche nostra con grande sincerità, il mese scorso si è liberato un posto in camera del vostro raccontatore. Siamo amici di corso e spesso studiamo per gli stessi esami.

 

Quindi lo sfortunato diventa fortunato restando studente.

 

È il secondo lunedì di maggio e la casa, dopo il fine settimana, si riempie pian piano dei suoi abitatori che arrivano alla spicciolata. E la sera, puntuali come la morte, siamo tutti insieme riuniti per cena. Il nostro se n’è arrivato con valigie e libri e anche quattro sorprese graditissime ai commensali. Una specie di torta Pasqualina è la prima, due bordolesi di lambrusco di gran livello e una scheggia di reggiano di tre anni prima son le altre.

 

In realtà gli ultimi tre sono di normale conosciuti e quindi apprezzati qb.

 

È la torta salata il vero uovo di pasqua. È lei il vero mistero da scoprire. Si chiama “erbazzone”, dalle parti loro si pronuncia con la esse molto strascicata al posto della zeta e quindi il suono completo è “erbasssone”. “Mi … ti … co!” avrebbe per certo azzardato il buon vecchio bisteccone Galeazzi se fosse stato con noi. Eccezionale … superbo … mai mangiato una roba così … gli fa un piffero la Quiche Lorraine” pensarono invece sottotraccia gli altri quatto commensali.

 

Il primo triangolino “ ... per assaggio e basta che ho mangiato troppa pasta”.

 

Gli altri pezzi ce li contendemmo all’arma bianca del quiz in voga in casa in quel periodo. Si trattava di indovinare nome e cognome di battesimo dei personaggi minori dello sceneggiato che la Rai replicava quella sera: “ Il conte di Montecristo”. Con grande sportività il portatore del cibo non partecipò alla singolar tenzone. Rimanemmo in quattro per gli otto pezzi rimanenti. Non ci fu gara perché quella sera scoprimmo, con disappunto, che uno di noi era una specie di fenomeno enciclopedico. Conosceva, con minimi errori, gli attori, principali e non, di gran parte degli adattamenti televisivi. E non solo. Se la cavava bene anche sul resto come aiuti, elettricisti, sarte, arredatori, montatori e via di seguito. Per lui il programma finiva dopo la visione di tutti i titoli di coda. Fino alla fine.

 

Quindi Sergio di Marina di campo si pappò l’intera posta meno pochi ritagli.

 

Dividemmo invece, da buoni amici e abitatori, il resto del desinare. Alla fine il caffè della moka da sei. Toccò a me, che avevo totalizzato tre punti sotto lo zero, l’onore e onere della preparazione.  Intento alla pulitura della macchinetta approfittai del momento di pausa tra risa e schiamazzi per chiedere all’ospite  notizie sulla prelibatezza appena assaggiata e non mangiata.”El bab de mi mamm …” attaccò “… aveva un osteria sotto i portici di Correggio. Stiamo parlando di quei fondi su strada con unico sporto. Tutti umidi, bui e polverosi come erano a quel tempo i locali pubblici usati dalla gente comune. Siamo ai primi dei primi del novecento in un paese della bassa. Avete presente il Novecento di Bertolucci? Ecco. Siete sulla buona strada. Quelle dovevano essere le atmosfere. L’osteria era un posto dove la gente andava per bere. Operai, contadini e generici si portavano il cibo che accomodavano su tavoloni di legno unto e macchiato. L’oste serviva le bevande che consistevano in poche varietà di scadente lambrusco servito in brocche di terraglia sbrecciate oltre ogni limite”. Continuò per una mezz’ora buona catturando la totale attenzione degli astanti. Si spensero le sigarette e si appoggiarono i bicchieri.

 

Anche il caffè si mise all’ascolto evaporando completamente dalla moka.

 

Ad un certo punto raccontò, mi pare che si era poco dopo la prima guerra, che l’oste aveva cominciato a preparare da mangiare. Pochi cibi semplici e non elaborati. L’erbazzone era uno di questi. Sua mamma insegnate lo prepara ancora come allora: stessi ingredienti, materiali, attrezzi e gesti. E via con la ricetta, preparazione e cottura. Rammento che usai il quaderno degli appunti per segnare tutto.

 

Poi qualcuno si accolse del caffè tracimato dappertutto sul piano cottura.

 

Risate e urla.. Tutti contro tutti  per non prendere la colpa dell’incidente. Per parte mia ero intento a scrivere, notoriamente son lento e anche gli appunti li scrivo a stampatello, perché rimasto indietro. Alcuni ingredienti mi parevano quantomeno inusuali comunque con diligenza scrissi tutto compreso la grattata di mezza noce moscata nell’impasto della farcitura.

 

La ricetta mi è servita per innumerevoli occasioni.

 

Feste di compleanno e battesimi, comunioni e matrimoni. E anche semplici inviti tra amici tanto per stare insieme. Ogni volta che mi accompagnava era un successo. Ero diventato “quello dell’erbasssone”. A volte mi baloccavo con delle aggiunte alla ricetta originale; quella del quadernetto; come uova sode a fette prima della chiusura finale oppure spennellata di chiara sulla pasta prima della cottura per ottenere una doratura perfetta. Ma sempre mantenevo gli ingredienti originali. Anche se in casa mi facevano la guerra per la presenza di uno di questi.

 

In quei casi tiravo fuori  il foglio e leggevo a voce alta gli appunti d’allora.

“Prima la pasta: mescolare farina (350), strutto (50 o equivalente olio buono), acqua appena stemperata (quanto ce ne vuole) e sale (fate voi). impasta bene e fai riposare (30-40). Intanto l’erbette lessate: misto spinaci e bietole (1000) in acqua salata. Dopo cottura scolar ben bene. Ora al tegame. Rosola in padella unta: cipollotti col gambo (1 mazzo), aglio (2 – 3 capi) e pancetta tesa (100). Tutti trinati finemente. Ora aggiungi il lessato e fai andare fino alla scomparsa dell’acqua. Sale e pepe in abbondanza. Grattugia la metà della noce moscata (1/2). Fai freddare un poco e grattugia tutto il parmigiano (100 e se te piace anche di +) sull’impasto. La teglia da forno ce l’hai? Meglio di forma circolare ché anche l’occhio abbia la sua parte. Ungila copiosamente anche nel bordo. Metà impasto lo stendi e l’altro lo serbi per la chiusura. Con la forchetta bucherella il fondo. Versa il ripieno Accomodalo per benino da tutte le parti. Riempi i vuoti. Chiudi con il rimasto badando bene di pinzare il fondo col coperchio. Usa ancora la posata per creare un decoro. Se ti è avanzato un poco di strutto o un filo d’olio usali per ungere il sopra. Nel forno statico per trenta minuti (200). Sforna e fai freddare. Una fetta per uno”.

 

Ho ripetuto la scena per anni ancora fino al mese passato.

 

Quando ci siamo visti nei dintorni di Firenze per una rimpatriata tra studenti trattino amici trattino architetti. Quattro da luoghi diversi; ognuno accompagnato da cibi diversi. Dal paese di Allegri pittore Antonio giungono, con il nostro Antonio,  a solleticare il nostro palato, molteplici cibarie. Le conto mentre escono dalla capiente borsa termica: lambrusco due non amabile e quindi super, parmigiano una scheggia gigante, gnocco al forno in quantità industriale, erbazzone di cui ormai sapete tutto, scarpasot che si differenzia dal precedente per l’assenza di pasta e per la lenta cottura in padella, tortelli alle erbette e di zucca tipo alla mantovana.

 

Tutta roba di qualità su superiore.

 

Come anche le altre cibarie che hanno accompagnato noialtri. Da buoni ex gaudenti, con la scusa di un brindisi, ci siamo subito fiondati nell’assaggio di un poco di tutto. Il primo mio boccone, gigantesco, è servito a dimezzare una fetta della torta salata che mi viene meglio. Dopo l’infarto ho abbandonato il fumo e ri - acquistato gusto e sapore. Me lo godo lungamente. Mastico in abbondanza e almeno per trenta o quaranta volte. Ergo ad un certo punto scopro un sapore che non c’è. Che doveva esserci visto che la mia ricetta è una costola dell’origina.

 

Manca la noce moscata.

 

Gli altri non si sono accorti. Delle due una: o hanno il palato riarso dalle troppe cicche oppure non rammentano il retro gusto della cibaria. Decido che non sia cosa  mettersi in mezzo e rovinare il rinfresco. Che in realtà diventa merenda e sfocia in una cena pantagruelica con tanto di dolce e prosecco alla fine. E finalmente siamo alla fine. In attesa del caffè sul fuoco ci si abbandona a domande e ricordi.

 

È il momento mio.

 

M: “Antonio ricordi la prima volta che ci hai portate l’erbasssone?”.

A: “Certo che si. Ti dettai anche la ricetta”.

M: “Si si. Segnai tutto. C’era un casino dell’ottanta ma scrissi ingredienti e passaggi. Ci son campato trent’anni e anche di più con quella torta. Un figurone ogni volta che la portavo in giro.”

A: “È quella del nonno oste. Spettacolare”.

M: “E allora toglimi una curiosità: perché non c’hai messo la noce moscata?”.

 

E lui con fare serafico: “Azzo dici la noce moscata non ci va!”.

Nessun commento:

Posta un commento

La scappata

La scappata | 2021 Il sedici del quarto si decisero a cercarlo. Se n’era andato verso la fine dell’estate precedente con famiglia, animal...