Il cartografo |
2003-04
Tornava a casa.
Finalmente.
Era partito con
la prima ondata nel primo dopoguerra. Per mesi la mamma gli aveva raccontato;
stregata dal biondo soldato della libertà che gli aveva promesso casa e
affetto; del fantastico paese che avrebbero vissuto. Delle sue sterminate
pianure e dei suoi deserti. Dei suoi antichi abitanti nomadi e dei suoi animali
saltatori. Della sua nuova vita. Sapeva con sicurezza; per aver sbirciato un
foglietto spiegazzato nascosto in colombaia; che il babbo non sarebbe più
tornato. I suoi poveri resti raccolti in una cassa di legno nelle sperdute
regioni di un altro paese. La campagna russa era stata una disfatta per
l’esercito dalla bandiera dei tre colori. La sciagurata politica del regime
l’aveva obbligato alla partenza e alla guerra contro i rossi. L’inesistente
macchina bellica aveva disfatto il suo battaglione. I russi e il generale
inverno avevano fatto il resto.
Era morto.
Di lui rimaneva
solo la medaglia al valore “… per atto
eroico …” che la mamma ogni tanto sbirciava di nascosto. La casa lassù
sulla collina apparteneva al padrone. Il pollaio e suoi abitanti non erano più.
La mucca l’avevano finita quei simpatici amici tedeschi di passaggio. I
parenti? Morti o dispersi o occupati, come loro, alla sopravvivenza quotidiana.
Non avevano altro. Bisognava partire. Le poche cose raccattate in fretta
stavano dentro la valigia di cartone e nella sacca di tela blu. Nella nuova
terra li aspettava il Biondo.
Partirono.
Il viaggio fino
alla città del mare fu un’odissea di sette giorni. In treno per piccoli tratti.
Alla pedona per altri fino a che un’anima buona; nelle sembianze di un
commerciante di borsa nera; non li salì sul cassone del malandato camion per il
porto. Colline e pianure, paesi e città, gente cattiva e gente gentile. Tutto
nuovo per un ragazzo di anni tredici mai uscito dalla valle lungo il fiume dove
era nato. E poi il mare. E poi la nave. E poi il viaggio in piroscafo. Tutto
nuovo. Tutto una scoperta. Fino al paese dei canguri. Fino all’altra parte
della terra.
Fino alla fine
del mondo.
Fino
all’Australia. Ma Job, il soldato della libertà, non era in loro attesa. Al
porto nessuno li aspettava. Job, come scoprirono alcuni anni dopo, era un
felice padre di quattro biondi marmocchi. Teneva moglie bionda e famiglia
numerosa e coltivava una sterminata fattoria. Si arrangiarono alla meglio nei
primi giorni fino a che la mamma non trovò lavoro come lavandaia e lui si
impiegò come manovale in un cantiere edile. Intanto la sera studiava.
Studiava la
nuova lingua e leggeva.
Leggeva tutto
quello che gli capitava in mano. Giornali e riviste, libri e dizionari. Lo
affascinavano soprattutto le mappe. Le carte del nuovo paese e degli altri
continenti; delle campagne e delle città; dei monti e dei fiumi. Scoprì i
colori e il disegno a mano. Disegnava continuamente e di tutto. Poi scoprì il
disegno tecnico e la topografia e vi si applicò fino in fondo. Strumenti di
disegno e di misura: riga e squadra; compasso e regolo matematico; paline e
fettuccia; squadro e tacheometro. Terminò gli studi e si impiegò presso
l’Istituto Geografico.
Iniziò a
disegnare carte e mappe.
Prima con
rilievi strumentali da terra. Poi interpretando le foto eseguite dall’alto.
Foto fatte dall’aeroplano. La macchina volante segue un corridoio
predeterminato sopra ad un predeterminato territorio. La macchina fotografica
esegue predeterminati scatti in successione. Si fissano dei punti di
riferimento certi a terra. Si sviluppa la pellicola e si fissano le immagini.
Pantografi e strumenti manuali; occhio buono e mente sveglia; capacità
interpretative e tecnica grafica.
Questo è il suo
mestiere.
Diventa bravo.
Il migliore. Lo promuovono fino al vertice. Diventa direttore generale
dell’Istituto. Realizza il sogno. Incontra e sposa una bruna emigrante arrivata
nel mondo nuovo alcuni anni dopo la prima ondata. Emilia Belli, toscana verace,
porta con sé gli odori e i sapori della sua terra. Insieme ricordano l’infanzia
e si appassionano alla storia dei loro luoghi. Per diletto inizia a farsi
spedire, in maniera periodica, carte e cartoline; viste e vedute; libri e
riviste, foto aeree e aerofotogrammetrie della sua valle. Ne diventa
inconsapevolmente un distaccato e profondo conoscitore.
Ne segue le
trasformazioni urbane per cinquant’anni.
“La conca
dell’Arno con le sue colline che piegano incuneate tra le gobbe del Pratomagno
e quelle dei monti del Chianti è uno dei tanti lembi di Toscana pregni di
storia e di patrimoni artistici prestigiosi. Intensamente popolata e ricca di
antichi abitati conserva numerose vestigia architettoniche e strutture
urbanistiche esemplari che palesano i segni di gloriose civiltà.” (1)
Questo è il suo luogo.
Quando è partito
c’erano tre paesi lungo il fiume; alcune strade e ponti collegavano i vertici
del triangolo formato dai tre insediamenti e tagliato dal fiume. Fuori la
campagna; dentro il triangolo anche. Guardiamolo insieme. (2)
Terranuova
battezzata dal Poggio in destra del fiume. Un rettangolo cinto di mura e torri
con la piazza quadrata al centro nelle vicinanze del Ciuffenna. Il fortino
costruito nel trecento dai Fiorentini è un cumulo di macerie lasciate dalle
truppe Tedesche in precipitosa ritirata. La ricostruzione della via principale
è appena iniziata. Fuori della cinta poche case e poco altro. Economia rurale e
un’antica fiera del bestiame la quarta settimana settembrina.
Montevarchi
lungo la strada che conduce verso Arezzo quando incrocia quella che proviene da
Siena. Ellittica sede di un antico mercatale. L’ellisse si allunga verso
l’esterno lungo la ferrovia e lungo la via principale. Opifici ottocenteschi e
un palazzo del podestà in mattoni stirano le direttrici del, già iniziato,
ampliamento urbano. La città dei cappelli, dei polli e dei vivai.
San Giovanni che
ha dato i natali al fratello dello Scheggia. Il rettangolo di Arnolfo con la
piazza passante e il municipio al centro è ormai allungato fuori delle mura
costruite dalla città del giglio. Il paese, stretto tra il poggio della Ciulla
e l’Arno, si allunga verso Firenze con la grande fonderia e verso Arezzo lungo
la ferrovia. La città delle lotte operaie e dell’industria pesante.
Fuori dei paesi
la campagna. Dentro anche.
Lotte intestine e campanilismo sui modelli medioevali. Si
narra di una partita di calcio tra la squadra bianco/celeste e quella rosso/blu
finita a pugni e calci. Si racconta, e qui la vicenda si fa dramma, di un
arbitro finito in fonderia.
Ma adesso il nostro
protagonista torna a casa.
I figlioli sono
oramai sistemati in città dai nomi stranieri e sono loro stessi stranieri.
Torna a casa prima che sia troppo tardi. Torna per restare. La compagna della
vita se n’è andata anni prima. La salma lo ha preceduto di pochi giorni e lo
aspetta, per l’ultimo saluto, nel cimitero dirimpetto alla casa lassù sulla
collina.
Volo
intercontinentale fino a Roma. Volo privato fino alla Valle lungo il fiume.
Osserva i
territori. Come sempre. Con occhi avvezzi a cogliere le caratteristiche dei
luoghi dall’alto. Si immagina carte che non potrà delineare. Casali in cima ai
poggi; boschetti di lecci; campi di grano; vigne; sentieri e paesi.
La sua terra. (3)
Nella sua testa le immagini diventano foto aeree. Le foto si
fissano sul piano e diventano linee. Ferrovie e strade; curve di livello e
segni convenzionali; montagne e città. Finalmente è sopra la valle. Chiede
cortesemente al pilota vari passaggi lenti. Si vuole gustare il momento. Si
vuole disegnare la sua personale carta mentale.
Dall’alto tutto
risulta impersonale.
Gli piace questo
modo di vedere le cose. Il fiume scorre lento. Di Montevarchi riconosce la
sagoma ellittica del centro. Terranuova è laggiù vicino al Ciuffenna. E poi San
Giovanni. Il paese che ha dato le ultime cinque cifre al suo codice fiscale:
D901X.
Il triangolo tra
i tre insediamenti è quasi intermente urbanizzato.
Solo al centro
compare una chiazza di terreno libero. Un enorme, tozzo e compattto, edificio
marrone e bianco si erge solitario lungo il fiume. E’ il nuovo ospedale unico.
Costruito in una zona soggetta a frequenti alluvioni. Il posto adatto per
questa gente accidiosa e dedita alla cultura dei campanili. Tagliato dai
confini comunali così che si nasce in un comune e si muore nell’altro. La
posizione è certo frutto di sapienti giochi politici. Ma ormai il danno è
fatto. Si augura solo che il luogo diventi una sorta di centro di servizi comuni
per quella che nei prossimi anni diventerà sicuramente un’unica città. Ma adesso
basta con i pensieri critici. Le informazioni sono registrate nella testa. La
carta è disegnata. Ora si va ad Arezzo.
Una grande
esposizione lo attende.
Il genio di Leonardo
(da Vinci) si mette in mostra. Mostra le carte dei territori toscani dal 1455
alla fine del quattrocento. Mostra gli
strumenti di misura e di indagine. Carte con inchiostri colorati su spessa
carta pergamena. Niente a che fare con le impersonali carte digitali di questo
inizio di secolo. Niente a che fare con bit e file; con dischetti e cidiroom.
La mostra è grandiosa. Il nostro eroe, accompagnato dalla bionda nipote
Jennifer, la visita d’un fiato. E poi ritorna sulle carte. E poi studia i
sentieri e i fiumi e le città. E poi esce nell’atrio di ingresso e si avvicina
al quaderno delle firme.
E poi scrive: “Arezzo, 21-07-2003, Giovanni Marchi,
cartografo, torna a casa”.
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