La giostra | 2005
(ovvero modesta novella sul crudele
destino di un povero infedele)
La giostra.
Da piccino la
giostra era per me quell’affare a forma di punta di lapis scavato. Con un piano
sotto e un soffitto a punta sopra. Un palo nel mezzo e dentro i cavallini che girano. Come tutti i
bambini avrei passato ore e ore e magari
pomeriggi interi sopra a quel magico mondo che la sera si illuminava tutto di
lucine colorate mentre la musica accompagnava il movimento delle bestie con
sopra i ragazzini al galoppo. Allora
andavano di moda i film degli indiani e dei cow boy (leggi per favore caoboi) e
anche le storie di Rintintin il cane oppure ancora le storie del Tex di
Bonelli. Il bianco e nero di Ombre rosse e le strisce; un terzo di ventinove e
sette per ventuno; del grande Blek e di capitan Miki.
Mitici.
L’occasione
della giostra; per noi abitatori della valle dell’Arno tra Firenze e Arezzo,
era la festa del Perdono la quarta domenica di settembre. In realtà tutto il
mese settembrino era un fiorire di giostre nella valle e noi bimbetti si
piangeva se, per un motivo alcuno, i genitori non ci portavano alle feste. Il
Perdono, festa tipicamente religiosa, si stava trasformando; si parla del
secondo dopoguerra o meglio dei sixties; in roba ludica e pagana abbastanza
simile; per rendere l’idea ai più giovani; a quello che sono oggi tutti i
mercati settimanali o anche le sagre di paese. Banchi di formaggi e venditori
di porchetta; zucchero filato e dolciumi; cavallini e ruote panoramiche. Poi
fecero capolino le automobiline e i carrarmati, gli aeroplanini e i missilini.
Noi si cresceva.
La giostra
continuava il giro ma la magia era finita.
E poi quando
sono arrivati la Giulia e Guido sono ritornato alla giostra. Adesso era fissa
nel viale lungo il fiume nella città che dette i natali al fratello di
Masaccio. Pareva un negozio: apriva alle nove e faceva la pausa delle tredici
per riprendere dalle sedici fino alle venti. Un negozio con lucine e
musichette; bombardieri e robot di d’acciaio. So per certo che i piccini si
divertivano lo stesso. Ma io non più.
La magia se
n’era andata insieme ai cavallini.
Poi un giorno;
che i ragazzi erano ormai grandicelli; mi chiama una signora con accento
aretino. Si presenta e mi dice di essere del comune di Arezzo o meglio della
giostra. Io lì per lì non realizzo. Sono sicuramente informato dell’esistenza
della giostra di Arezzo anche perché in quel paese (oddio qualcuno mi uccide
che ho chiamato “paese” quella che si fregia di essere una città) ho trascorso
cinque dei miei anni da studente a imparar di strumenti ottici e
triangolazioni; di disegno tecnico e particolari costruttivi.
Ma che volete
che vi dica. Sono un italiano medio. Vado in giro per l’Italia alla ricerca di
rievocazioni storiche analoghe ma siccome la città che battezza la targa della
mia macchina è lì vicino non sono mai stato alla giostra del Saracino.
Giuro: parola di
giovane marmotta.
Non realizzo
dicevo e intanto penso tra me e me: “… ma
di che giostra parla questa … che roba è … che sia quella dei cavallini di
quando s’era piccini … ?” Per fortuna penso e non parlo perché essa
continua: “… della giostra del Saracino
che certo lei conoscerà.” E io: “…
ehm … well … si … certo che la conosco. Certo che conosco la giostra”. E
allora lei rinfrancata riprende: “… ecco
vede lei sarebbe stato scelto per essere uno dei cinque giudici di campo
dell’edizione del diciotto. Quella in notturna. Accetta?” E allora
improvvisamente capisco. Capisco e rientro in palla. Rendendomi disponibile
alla bisogna chiudo frettolosamente e corro ad informarmi sulla giostra
dell’uomo nero. Del Saracino off course. Nei giorni a venire mi attacco alla
rete globale e scarico una quantità enorme di materiale. Una barca di fogli.
Saranno cento e passa. Mi leggo delle origini medievali e degli sviluppi
successivi; mi informo sull’albo d’oro e mi studio tutto il regolamento dalla
“a” alla “zeta”. Lo mando a memoria con le tecniche apprese dall’amico indiano
dell’India. Le so tutte.
E poi arriva il
giorno.
Il sabato
pomeriggio ho appuntamento con il presidente e gli altri giudici al teatrino
della Bicchierata. Per le venti e quindici precise. Al solito arrivo per tempo
e in netto anticipo sull’ora fissata. Saranno le diciannove e trentatre quando
finisco di pulire lo stecco del moresco. Moresco come il Saracino. Mi siedo sui
gradini della porta di fronte alla prevendita dei biglietti e mi accingo
all’attesa che prevedo abbastanza lunga. Diciamo cinquanta minuti almeno. Per
fortuna ho lo zaino con l’occorrente. Accendo una rossa e tiro fuori il
taccuino di viaggio che sempre mi accompagna. La copertina porta impressa
un’immagine di Ernesto C. G. con un cubano stretto tra i denti e la barba di
alcune settimane. La pilot si muove veloce che la scrittura è un’arte che s’ha
da fare in velocità. Senza pensare troppo; a tutta randa. Giungo a raccontare
fino al momento della telefonata di invito alla giostra e poi arriva il/la
presidente…ssa. Tutta bionda e bronzata di mare.
Una gioia per la
vista e alle venti e ventitre come previsto.
Ci si saluta e
ci si veste in fretta nella sala delle prove del teatro. Una stanza stretta e
lunga con il pavimento di legno e uno specchio a tutta parete sulla sinistra
entrando dalle scale. Una tenda trasparente colore nero o forse blu o forse
grigio scuro corre davanti alla parete specchiata e da un certo tono al locale.
Non male. Una bella atmosfera. Ci cambiamo velocemente e indossiamo la veste
rossa di tessuto pesante. Forse lana o che so io. Un caldo infernale. Credetemi.
Il nostro accompagnatore: un signore con la barba che ha sempre fretta e che ci
esorta a fare veloce; ci mette a conoscenza che quest’anno non avremo il
cappello bianco che contraddistingue i giurati ma saremo a capo scoperto. Io
penso alla mia pelata e sogghigno sotto i baffi che non ho.
Ma adesso è
l’ora di andare.
Si và alla
giostra. Si và in piazza. E mi sovviene, chissà perché, la parte finale di un
testo letto giorni prima. Si tratta del canto di disfida che verrà declamato in
piazza prima della gara. “… Non più
parole, omai, vò vendicarmi: al campo! Alla battaglia! All’armi! All’armi!”
In fretta ci si catapulta tra la folla del Corso che assiste al passaggio del
corteo storico: cavalli e cavalieri; dame e magistrati; alabarde e stendardi; tamburini
e musici. Uno spettacolo.
E poi eccoci
arrivati al cancello d’ingresso all’invaso.
La piazza è lì
dietro. Gli spettatori prendono posto sulle gradinate e si avvertono i primi
canti di sfottò. Ogni quartiere o meglio ogni porta ha il suo coro anche il
contro coro per le parti avverse. Una bolgia. Al cancello siamo i primi.
Evidentemente il signore con la barba che ha sempre fretta ha calcolato male i
tempi. Sono appena le venti e trentatre e l’attesa comincia. Il giudice con lo
zaino arancione è indeciso se indossarlo davanti; come se fosse una grossa
pancia posticcia; o dietro come se avesse la gobba. Naturalmente il giudice è
il qui presente raccontatore che chiameremo “lo Scheggia” per rispetto delle
regole sulla privatezza. Ma si diceva della piazza che, gli abitanti della
terra cantata dal sommo poeta Pietro, chiamano Grande. Piazza Grande la
conosco.
E bene.
C’è uno
spettacolare palazzo del cinquecento con un porticato a doppio volume. Ci sono
venti grandi arcate e ventuno piastroni. L’undicesima arcata dal Corso serve a
condurre la gente dalla piazza fino al Prato. In terra si calpestano certi
lastroni di travertino di Rapolano consunti e sbrecciati ma belli così. Se ci
si mette con le spalle al palazzone a destra si trova il palazzetto della
Fraternità dei Laici ora sede del tribunale. Accanto il sedere della Pieve.
Bellissimo. Assomiglia, secondo me, a quello della Marilina buona amica di un
presidente morto in circostanze misteriose quarant’anni e rotti or sono. Gli
altri due lati; frutto di un rifacimento stilistico intorno agli anni trenta;
sono molto “very beautiful” come
direbbe la mia amica Bea dai Paesi Bassi.
E poi c’è lei.
Tutta pendente
verso la bianca fontana con il pozzo medievale da una parte e la colonna della
vergogna dall’altra. Il semplice ammattonato; bordato ai lati e nel mezzo da
strisce di travertino bianco; la rende unica. Grande. Veramente. E ora la gara.
Ma prima c’è il corteo che entra. E tocca anche allo Scheggia insieme agli
altri giudici. Con la pelata e la gobba e la macchinetta digitale nascosta
sotto la veste rossa. La folla urla e barrisce in attesa dell’ingresso dei
quartieri in gara. Ma il quinto giudice ha da onorare una promessa fatta a se
stesso e all’infedele i giorni passati. Il corteo viaggia a passo di tamburo
sopra il percorso in terra battuta. Dal pozzo alla scalinata del tribunale
frisando la colonna dell’infame e fermandosi alla decima arcata del Vasari.
Poco prima di svoltare verso il palco della giuria il nostro sbottona in fretta
tre bottoni del costume e schiaccia, spera non visto, il pulsante della
diavoleria giapponese digitale. Flash! L’immagine è dentro la memoria virtuale
della scatoletta di alluminio.
Il Saracino è
imprigionato.
La giostra può
incominciare. La gara prevede che gli otto cavalieri delle quattro porte
colpiscano a turno; lancia in resta; il braccio sinistro dell’infedele che
porta una specie di tabellone segnapunti. Il punteggio và da uno a cinque e la
somma delle due “lizze” per ogni quartiere determina il punteggio finale e
l’assegnazione della vittoria. Il premio è una lancia d’oro ogni anno diversa. Le
complicate regole di gara le ho mandate a memoria la settimana scorsa.
Stanotte,
ventuno di giugno solstizio d’estate, voglio terminare ‘sta novella.
La luna è piena
e rossa che pare un’arancia. Ieri è nato, alcuni anni or sono che mai si dice
l’età di una signora, il mio amore. Mi sento in pace con il mondo intero.
Intanto la
giostra gira.
E gira e gira e
gira. L’automa di legno si becca della lanciate che levati e cerca di
rispondere con palle macchiate di polvere nera che difficilmente raggiungono
l’obiettivo. Per onore di cronaca occorre ricordare che l’edizione in notturna
è stata vinta quest’anno (non me ne vogliano quelli di San Lorentino) dalla
Porta con il buco.
Posso dire la
verità? Non vorrei essere il Buratto.
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