Cangrande | 2005
Sono stato una
volta Verona. Anzi mi è capitato di
esserci andato almeno sette e poi un paio di volte o tre l’ho sfiorata.
Prima le
sfiorate.
Le sfiorate
dipendono dalla vicinanza della città con varie attrazioni turistiche che non
hanno niente a che vedere con l’arte. Per esempio il Parco zoo o anche il lago
di Garda oppure Gardaland. E poi l’appellativo sfiorate dipende dal fatto che
il corpo era turistico e giocava con i figli ma il cuore pensava all’arte della
città di Romeo & Giulietta.
Ora le visite.
Un paio ricordo
di averle fatte nella prima metà dei settanta. Di una ricordo un pullman pieno
di adolescenti felici per la gita a prescindere del luogo che c’era da
visitare. In cinquanta ci recammo alla Fiera dell’agricoltura a vedere mucche e
cavalli; macchine agricole e sementi. Dell’altra non ricordo niente.
Ce ne sono poi
almeno tre in un posto vicino all’uscita dell’Autostrada. Qui si trova il
Centro fiere della città. Un agglomerato di capannoni dove si svolge, da almeno
venti anni, una mostra di arredamento tutta particolare. Una mostra del mobile
e della memoria che hanno battezzato Abitare il tempo. Ricordo di un progetto
di concorso per un mobile di affezione e di un paio di oggetti per la casa che
mi è capitato di esporci. Uno di questi; Lucignolò, aveva il nome che
scimmiottava l’amico di Pinocchio ed era dedicato a mia figlia che da piccola
dipingeva con gli acquarelli.
Le altre volte
sono stato nel cuore della città.
In compagnia di
amici e parenti ho visitato la piazza delle Erbe e l’Anfiteatro; il lungo fiume
e le mura; la casa dei due amanti e le pietre delle sue strade. Un paio di
volte ho percorso il ponte Scaligero e mi sono fermato a riposare sulle panche
di pietra sotto i merli di mattoni. Ricordo una campagna fotografica con una
macchinetta di cartone, di quelle usa e getta, con la Giulia e Guido che facevano
i modelli davanti allo scalone di un palazzo storico mentre il sole rendeva
drammatiche le ombre. Poi ho visitato il vecchio Castello e il suo museo.
Sempre in compagnia e a più riprese dalla fine dei settanta.
Di tutte ricordo
qualcosa.
Un particolare o
una faccia; una persona oppure un pezzo di sasso. Mi piace però raccontare
l’ultima. L’ultima che per me è sempre come se fosse la prima.
Correva circa
l’estate dell’anno duemila, poco più o poco meno, e mi trovo in città con la
famiglia completa delle sue quattro unità. I ragazzi sono piccoli e il giorno
prima la visita al parco vicino al lago è stata obbligatoria. Tutti quei giochi
con l’acqua hanno divertito anche me. Ma oggi andiamo per Arte.
Andiamo a trovare
Carlo Scarpa.
Il cortile di
ingresso è splendido come al solito. Qui convivono antichi muri di pietra con
stucco veneziano insieme a lastre di marmo bianco. Le lastre sono messe per
terra e individuano percorsi o soste e anche discrete vasche d’acqua. E poi ci
sono sculture e fiori. Bello. Ce ne stiamo un poco a bighellonare indecisi se
entrare oppure metterci in macchina alla volta della città del Leone dove siamo
attesi in serata. Prima del museo siamo andati in giro per la città a fare il
solito giro turistico e i ragazzi cominciano ad essere stanchi. Ma la promessa
di un gigantesco cono con tre palle li convince. Io assicuro che la visita vale
il prezzo del biglietto e ci si avvia verso l’ingresso. Non senza la promessa
del piccino che vuole essere trattato da grande e spergiura che seguirà
tranquillamente il genitore passo per passo. E infatti nel mentre si staccano i
biglietti dal controllore la coda dell’occhio intravede sfrecciare una piccola
sagoma gialla. È Guido che, incurante delle urla della mamma, si avvia verso il
fondo delle sale del piano terra. E mentre prosegue la folle corsa scansa, per
miracolo, tutte quelle testine sorrette da eleganti strutture di acciaio che
stanno su per miracolo. Quindi le prime sale le facciamo a passo veloce. Lui è
laggiù in fondo tranquillo e intento a studiare una piccola statua di pietra
bianca. Stavolta non ci frega. Lo agguanto per la mano e saliamo di sopra.
La visita è un
supplizio con lui che tira.
Tira con la mano
e con il corpo. Adesso vuole uscire per il gelato promesso. Ma io duro. Voglio
almeno andare trovare il guerriero. L’ho visto almeno tre volte ed ogni volta è
una scoperta che avrei piacere di condividere con gli altri. La promessa è riscritta con il sudore.
Stavolta le palle sono quattro e dopo anche la coca.
Il piccino si placa
e si mette a far l’omino.
Giulia canzona
il fratello e Silvia è incavolata nera con me che mi ostino a far girate d’arte
invece di portare i ragazzi al parco. Comunque si prosegue. Uno stretto
corridoio con feritoie verso il fiume ci conduce verso il fuori. Apro la porta
e ci troviamo in un piccolo cortile coperto. Un percorso in diagonale ci
conduce verso una piccola scala e poi una passerella di cemento armato ci
avvicina al guerriero da sotto. Lui se ne sta solitario sopra ad un esile
basamento di calcestruzzo e cavalca un destriero bianco.
Anche lui è
bianco.
Sono tutti e due
bardati da guerra. Lui è vestito con elmo e armatura; lancia e spada. Il
cavallo e il guerriero sono sospesi nell’aere. Pronti a spiccare il volo verso
la gloria.
Adesso faccio lo
splendido e racconto dell’architetto che ha piazzato in quel punto il
guerriero: “… Scarpa odiava la simmetria
e pensava che la dislocazione delle forze, i nuclei di concentrazione delle
forme, andassero sempre non secondo la legge di un centro , ma secondo dei
punti di tensione.”
E i ragazzi in
coro: ”… Babbo non ci si capisce niente.
Che ci importa della simmetria e dei nuclei.
Invece dicci chi è?”
E io: “Cangrande
della Scala.”
E loro: “… Ovvia che ora ci tocca il gelato.”
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