Direttamente | 2019
Ricordo bene
l’ultimo giorno dell’ottobre settantotto.
Non per la
vigilia di Ognissanti con la solita rumba di streghe, mostri, travestimenti e
fantasmi; neanche per le zucche svuotate di semi e ripiene di candele accese e
di sicuro non per la processione di ragazzini vestiti da spiritelli canterini
che attaccano con “ … dolcetto o
scherzetto” e finiscono porgendo un cestino da riempire. No! Niente di
tutto questo. Piuttosto per un fatto inconsueto che non mi accadeva da una
decina d’anni.
Improvvisamente
mi si accesero alcune lampadine.
Come un novello
Archimede che se n’esce dalle strisce di Topolino quando fa una scoperta
fantasmagorica anch’io m’illuminai. Non a giorno per carità. Ma piuttosto a
caso in quanto non immaginavo di averne ancora di operative: due stanze di
sotto, l’ingresso a terra, il corridoio e il bagno al primo e quella del
fienile dirimpetto all’aia. Illuminazione a macchia di leopardo si potrebbe
definire. La luce era bella, calda, giallina e sporca di polvere secondo le
regole. Intanto le domande mi s’affollavano in alto; vicino al soffitto della
piccionaia: “perché?, chi?, a che pro?”.
Intenta ad elaborare questi basici pensieri, a tutta prima, non mi accorsi del
buio che era tornato a comandare sulla luce.
Era successo
tutto all’improvviso e altrettanto fulmineamente se n’andò.
Scoprii poi dopo
che tutto questo era una prova e che l’operazione sarebbe stata ripetuta varie
volte quella sera. Attivai tutte le connessioni possibili; animali, vegetali e
sintetiche con il resto del mondo e rimasi in attesa. A seguire quanto, per
sommi capi, appresi.
Una brigata di
ragazzacci, età intorno ai venti, mi aveva avuto in uso.
Il comodato,
durata anni uno rinnovabile tacitamente, cominciava dall’indomani ma la chiave
in possesso era stata un occasione troppo ghiotta per non tentare
l’esplorazione della proprietà durante la notte della magia. Con la firma del contratto ancora calda e
trecentosessantacinquemila lire in meno si erano dati appuntamento al bar del
paese per le nove della sera. Poi con tre macchine, tre vespe e un’ape mi erano
venuti a occupare. Parcheggiarono i mezzi nel piazzale della tabaccaia e
spensero i fari. Al buio più completo, fidando della splendida luna piena di
quella sera, s’inerpicarono lungo il viottolo fino all’aia. Qui accesero tre
torce e una decina di sigarette. Il più anziano, titolare del contratto, cavò
di tasca la chiave e provò la serratura. Il meccanismo era inceppato per
mancanza d’uso e manutenzione. Allora il fabbro
si avvicinò con una bottiglietta d’evo,
un fazzoletto e un temperino. Trafficò alcuni secondi nei dintorni della porta
e poi, con fare sornione, sorrise mentre la chiave girava perfettamente su se
stessa. Con un cigolio la porta si aprì.
Il gruppo entrò
furtivo.
Le torce
affettarono il buio decennale e si soffermarono su alcuni particolari come la
maniglia della porta della stalla, la
pala per il pane accatastata nell’angolo buio vicino al forno, il primo scalino
con il bastone sbrecciato, il soffitto voltato di mezzane in terracotta. E la
chiave di volta con incisa la mia data di nascita: “millesettecentonovantatre”. Il cerchio di luce si soffermò sul
numero ad ammirarne la vetusta evidenza.
Poi le luci si
accesero.
La sorpresa fu
evidente. Alcuni si lanciarono verso l’ingresso mentre altri aprirono a tentoni
la porta della stanza del segato, due provarono la salita su per le scale e i
rimanenti si nascosero sotto il piano del forno. A quel punto si aprì la porta
del ripostiglio e se ne uscì l’elettricista
con il sorriso di soddisfazione di colui che ha appena risolto il caso del
giorno. Come un novello Hercule Poirot si lisciò il baffo, che non
aveva, e si accinse al racconto della “ …
e luce fu”.
Era successo che
mentre il grosso degli occupanti, considerate le oggettive difficoltà, si
perdeva in chiacchiere e discorsi sull’opportunità o meno di continuare
l’esplorazione, il nostro eroe aveva agito. Equipaggiato di accendino anti
vento Zippo aveva scoperto il posto dell’energia e aveva fatto il suo mestiere.
Ora che ci ripenso gli operai che mi
staccarono l’energia non fecero un lavoro accurato piombando il contatore e
quanto altro necessario ma si limitarono ad un veloce “ … stacca il filo e andiamo via che stasera c’è la finale della coppa
Rimet”. E così il nostro eroe, senza all’apparenza commettere infrazioni,
non fece altro che attaccare un filo che uno schiocco aveva staccato.
E io godei come
un riccio femmina.
Non ricordo di
esser stata così bene come quella sera. Nemmeno il giorno della festa della
copertura. In quegl’anni; correva la fine del settecento: era ancora in uso
organizzare una grande festa per la posa dell’ultima tegola del tetto. Il
banchetto, che gli operai definivano
rialto, fu quanto mai abbondante e sostanzioso mentre la festa da ballo che
seguì si trasformò in una gara allo sputo. Vinse il Bernaschi di Greve che
durante l’orario di lavoro era il sottomanovale del capomastro ma quando si
trattava di lanciar saliva non lo batteva nessuno.
Questa la vinse
con nove passi e novantanove. Misura certificata dal figlio del fattore;
notorio pezzo di merda; che studiava da agrimensore a Rovigo ed era infallibile
nella stima delle distanze. Misura, tra le altre, assai ragguardevole
considerato che il gesto atletico era stato eseguito senza l’ausilio del
nocciolo, variante introdotta da poco, che a volte aumentava la distanza anche
del cinquanta per cento e anche di più.
Il giorno dopo i
bagordi cambiarono le maestranze.
Rimase il
capomastro col suo fedele sputatore. Gli altri furono sostituiti, per un
normale e preventivato avvicendamento, dagli operai delle finiture:
pavimentatori, intonacatori, falegnami, tinteggiatori e via di seguito. Le
squadre lavorarono di buona lena per tutta l’estate e la domenica del Perdono
di Terranuova mi bagnarono tutta. Con un bel fiasco, anzi vorrei correggermi … una damigiana, di rosso della vicina
collina m’innaffiarono le parti basse dei piedritti della porta d’ingresso.
E se guardate
bene, nonostante il tempo, ancora si vede qualche macchiolina.
Comunque sia il
giorno dopo arrivò la prima famiglia: una quindicina di persone con due gatti,
tre cani oltre a vari animali da cortile e bestiame vario. Diventar mezzadri
della fattoria, a quel tempo, composta da alcune decine di poderi dislocati dal
Pratomagno alle rive dell’Arno, era cosa ambitissima. Figurarsi poi abitare una
dimora appena costruita senza muffe, sudiciumi e olezzi vari. Il fattore mi
aveva fatto capire; tra le righe di una chiacchiera col bifolco; che ero la costruzione di punta
dell’azienda edificata secondo le ultime e più moderne regole agronomiche
seguendo le regole dettate dal Morozzi nel suo trattato “Delle case de' contadini”. Mi avevano dotato di: grande fienile a
due piani, aia dirimpetto all’ingresso, recinto per l’allevamento suini, grotta
scavata sotto l’aia per la stagionatura dei prosciutti, orto esposto a sud –
est e pollaio recintato. Le stalle occupavano tutto il piano terreno mentre un
filare di Gelsi abbelliva il fronte e dava da mangiare ai bombi che mi abitavano la soffitta.
Ma torniamo a
bomba.
Facciamo un
salto nel tempo fino a quella notte di fine anni settanta anzi alla mattina
dopo. È un giorno di festa e da tempo i ragazzi disertano le funzioni religiose
standard figurarsi oggi. Alcuni, per l’eccitazione accumulata, non hanno
neanche preso sonno e si son presentati un’ora prima del fissato. Eccoli quindi
di buon ora armati di attrezzi, arnesi e materiali. Ognuno per le proprie
capacità si mette al lavoro. I lavori si protraggono nelle sere successive per
alcune settimane. Smontano e saldano, collegano e giuntano, dipingono e tappano
e via fino al sette dicembre dopo cena quando il tenutario del contratto di
locazione dichiara la fine dei lavori.
Per l’Immacolata
m’accendono il camino per cucinare polenta e ribollita.
Tutti
ingredienti a “chilometro zero” compreso condimenti e beveraggi. Rammento che
fu il desinare più alcolico a cui mi sia mai capitato di assistere anche a
paragone di battesimi, sposalizi, comunioni e battiture degli anni d’oro del
podere. Per molti dei commensali quella festa sembrava il massimo cui poteva
aspirare il gruppo che era pur sempre formato da gente di campagna anche se
diversi travagliavano in fondovalle in varie manifatture e un paio studiavano
ancora. Quindi al brindisi finale proposero la data, il trentuno del mese,
della prossima cena con i soliti amici.
Ma non andò
così.
Non ricordo chi
fu ma uno dei soci aveva appena veduto una pellicola demenziale dove ad un
certo punto un pazzo scatenato; tale Bluto Blutarsky; se n’esce con una battuta
che poi diventerà un culto tra i ragazzi della casa. La riporto fedelmente
perché l’ho ascoltata tante di quelle volte che la so tutta per filo e segno:
(BB | JB | Animal House, 1978) “Cosa? È
finita? Hai detto finita? Non finisce proprio niente se non l'abbiamo deciso
noi. È forse finita quando i tedeschi hanno bombardato Pearl Harbour? Col cazzo
che è finita! E qui non finisce, perché quando il gioco si fa duro, i duri
cominciano a giocare”.
Organizzarono
quindi una fantasmagorica festa per la fine dell’anno settantotto
La prima di
molte altre nei tre anni che mi abitarono. Questa fu ricordata come “la 300”
perché richiamò più di duecentoottanta persone in un luogo in mezzo al niente:
sperduto, buio, con strada sterrata e infangata e senza parcheggio. Magari il
grande successo fu dovuto a due o tre fattori che vado ad elencare: aperta a
tutti, dotata di buffet imperiale con cibi e bevande a go-go, musica con
“resident dj”, luci effetto sala da ballo e ingresso (presentato come offerta
libera) ad un terzo rispetto a quanto richiesto nelle discoteche in valle. E
poi, “dulcis in fundo”,
c’erano due stanze buie, dotate di tutti gli agi, adibite a “privè”.
La nascita, nove
mesi dopo, di AB confermò la bontà dell’idea.
Solo un fatto
macchiò la serenità di quel giorno per il resto campale. Fidando del mestiere
di tipografo di uno del gruppo fu
affidata a lui la comunicazione pubblicitaria dell’evento. In un mondo senza “social e telefonini” furono disegnati e
stampati un paio di cento biglietti d’invito su carta In quell’occasione,
considerate le pruderie dei conduttori e le chiacchiere delle comari del paese,
fui anche battezzata con un appellativo che mi porto addosso ancora adesso: “la Casa del peccato” preceduto dal
disegno di un diavoletto che porge un mazzo di fiori. L’invito circolò in tutto
il Valdarno e forse anche più in la. Fu talmente efficace che il pomeriggio
della festa un signore suonò alla porta d’ingresso. L’imbianchino che si affacciò dichiarò di conoscerlo come Benescutti
Giano, grandissima testina di quiz e buon amico di suo fratello sposato. Alcuni
ragazzi erano intenti agli ultimi ritocchi tecnologici per sistemare il banco
dei giradischi e il controllo luci mentre altri stavano spazzando e tirando a
lucido i locali. La musica andava a tutto volume sui “ … Floyd at Pompei”. Il tipo;
grassottello e tracagnotto con i capelli brizzolati e unti di
brillantina aveva per sovra più un paio di baffetti da sparviero che me lo
fecero apparire subito molto antipatico; dichiarò di non voler entrare in casa
in quanto pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.
Anzi fece
scendere il gruppo di ragazzi.
Qui cavò di
tasca una tessera plastificata che raccontava la sua seconda professione;
durante la settimana inchiodava suole; di controllore o ispettore o simile per
conto di una fantomatica società di autori.
Subito attaccò una filippica sul fatto che stavamo organizzando una
festa abusiva che avrebbe coinvolto mezzo Valdarno con il rischio di far
chiudere i locali regolari ed altro sciorinando. I ragazzi erano basiti.
Nessuno ebbe il coraggio di ribattere o fiatare. Tutti erano intenti a pensare
come se la potevano cavare contro questo losco figuro che era arrivato
appositamente per scassare le uova nel paniere. Intanto il nostro eroe
difensore della musica calò il settebello con: ”…. E poi c’è il fatto delle canzoni …”. “Che centrano le canzoni” – ribatté il disc jockey stringendo minaccioso il microfono gelato che gli era
spuntato in mano. E l’ispettore: “
C’entrano … c’entrano … e come se c’entrano. Prima di tutto qui conto più di
dieci persone, ma ho notizia che ne sono attese almeno altre duecento. Poi
dovete sapere quando si suona in pubblico c’è da pagare i diritti agli autori
delle canzoni …”. E via continuando
per altri dieci minuti sull’etica e sul lavoro intellettuale e artistico.
Poi all’improvviso
smise di blaterare e sorrise sotto i baffoni.
Come se fosse
Kaa il serpente di Mowgli cambio voce. Passò in modalità “strisciante” e disse: “
Comunque ci si pole accordare … –
altro risolino accompagnato da occhiolino destro che lampeggia sotto e sopra - … vi lascio questo stampato che voi riempite
con i titoli delle canzoni che pensate di suonare. Mi raccomando scrivetene almeno un centinaio
e anche di più ché la notte del trentuno è lunga e dovete essere credibili. Poi
il due tuo fratello - rivolto all’imbianchino - me lo porta e lo metto agli
atti. Intanto saldate i diritti. Dunque … dunque … - comincia a scrivere su
un taccuino da investigatore che aveva in tasca - … tre per due più duecento a
stima meno centoventi diviso tre uguale … ecco … ci siamo. Fanno centoventimila
esatte. In contanti prego”.
Dodici erano i
mie eroi. Con altrettanti deca, serbati per la festa, oblarono.
Nei tre anni che
mi usarono non mi fecero mai violenza. Anzi per quanto possibile, viste le loro
esigue finanze di ragazzi poco più che maggiorenni, mi sistemarono alcune
magagne come tegole rotte, angoli sbrecciati, crepe varie, riprese d’intonaco,
mattonelle smurate e su iniziativa del falegname
perfino la porta del bagno. Nella primavera del settantanove m’imbellettarono,
per la verità solo le stanze che usavano, con una mano di bianco burro bella
densa. Quell’estate poi uno degli studenti
che aveva alcune, devo dire ingiustificate, pruderie artistiche mi fece
compagnia per un paio di giorni dalla mattina alla sera. Si era messo in testa
di riprodurre il marchio di un gruppo rock nato a Londra nei primi del sessanta. E lo voleva disegnare
nella nicchia del lavello in pietra della mia cucina. E lo fece. Ci mise in
realtà più di una settimana compreso il tempo adoprato per ripensamenti,
cancellature e dipinture a coprire la prima versione. Poi si ricordò del
sistema della griglia che aveva imparato in gioventù con i primi rudimenti di
disegno tecnico.
Se n’andò per
mezz’ora e quando ritornò era raggiante.
Aprì a pagina
trenta il libro; educazione artistica delle medie; che si era portato e lesse a
voce alta: “Il Reticolo. Ingrandire un
disegno: Per eseguire una copia esatta di un disegno è facile basta ricalcarlo.
Ma se occorre una copia in scala maggiore o minore, il metodo della griglia è
il più semplice e garantisce un disegno accurato e di proporzioni esatte”.
Quindi col lapis morbido disegnò la griglia sopra al disegno originale e subito
a seguire, ingrandita di un tot, sulla parete. Dopo di ché fu facile e veloce.
Alla fine del terzo pomeriggio il disegno al tratto era completato. Il quarto e
quinto bastarono a dipingere la boccaccia di MJ su fondo giallo con cerchio
bianco.
Pulire schizzi e
macchie fu più dura.
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