Lettori fissi

03/01/20

Direttamente



Direttamente | 2019

Ricordo bene l’ultimo giorno dell’ottobre settantotto.

Non per la vigilia di Ognissanti con la solita rumba di streghe, mostri, travestimenti e fantasmi; neanche per le zucche svuotate di semi e ripiene di candele accese e di sicuro non per la processione di ragazzini vestiti da spiritelli canterini che attaccano con “ … dolcetto o scherzetto” e finiscono porgendo un cestino da riempire. No! Niente di tutto questo. Piuttosto per un fatto inconsueto che non mi accadeva da una decina d’anni.

Improvvisamente mi si accesero alcune lampadine.

Come un novello Archimede che se n’esce dalle strisce di Topolino quando fa una scoperta fantasmagorica anch’io m’illuminai. Non a giorno per carità. Ma piuttosto a caso in quanto non immaginavo di averne ancora di operative: due stanze di sotto, l’ingresso a terra, il corridoio e il bagno al primo e quella del fienile dirimpetto all’aia. Illuminazione a macchia di leopardo si potrebbe definire. La luce era bella, calda, giallina e sporca di polvere secondo le regole. Intanto le domande mi s’affollavano in alto; vicino al soffitto della piccionaia: “perché?, chi?, a che pro?”. Intenta ad elaborare questi basici pensieri, a tutta prima, non mi accorsi del buio che era tornato a comandare sulla luce.

Era successo tutto all’improvviso e altrettanto fulmineamente se n’andò.

Scoprii poi dopo che tutto questo era una prova e che l’operazione sarebbe stata ripetuta varie volte quella sera. Attivai tutte le connessioni possibili; animali, vegetali e sintetiche con il resto del mondo e rimasi in attesa. A seguire quanto, per sommi capi, appresi.

Una brigata di ragazzacci, età intorno ai venti, mi aveva avuto in uso.

Il comodato, durata anni uno rinnovabile tacitamente, cominciava dall’indomani ma la chiave in possesso era stata un occasione troppo ghiotta per non tentare l’esplorazione della proprietà durante la notte della magia.  Con la firma del contratto ancora calda e trecentosessantacinquemila lire in meno si erano dati appuntamento al bar del paese per le nove della sera. Poi con tre macchine, tre vespe e un’ape mi erano venuti a occupare. Parcheggiarono i mezzi nel piazzale della tabaccaia e spensero i fari. Al buio più completo, fidando della splendida luna piena di quella sera, s’inerpicarono lungo il viottolo fino all’aia. Qui accesero tre torce e una decina di sigarette. Il più anziano, titolare del contratto, cavò di tasca la chiave e provò la serratura. Il meccanismo era inceppato per mancanza d’uso e manutenzione. Allora il fabbro si avvicinò con una bottiglietta d’evo, un fazzoletto e un temperino. Trafficò alcuni secondi nei dintorni della porta e poi, con fare sornione, sorrise mentre la chiave girava perfettamente su se stessa. Con un cigolio la porta si aprì.

Il gruppo entrò furtivo.

Le torce affettarono il buio decennale e si soffermarono su alcuni particolari come la maniglia della porta della stalla,  la pala per il pane accatastata nell’angolo buio vicino al forno, il primo scalino con il bastone sbrecciato, il soffitto voltato di mezzane in terracotta. E la chiave di volta con incisa la mia data di nascita: “millesettecentonovantatre”. Il cerchio di luce si soffermò sul numero ad ammirarne la vetusta evidenza.

Poi le luci si accesero.

La sorpresa fu evidente. Alcuni si lanciarono verso l’ingresso mentre altri aprirono a tentoni la porta della stanza del segato, due provarono la salita su per le scale e i rimanenti si nascosero sotto il piano del forno. A quel punto si aprì la porta del ripostiglio e se ne uscì l’elettricista con il sorriso di soddisfazione di colui che ha appena risolto il caso del giorno. Come un novello Hercule Poirot si lisciò il baffo, che non aveva, e si accinse al racconto della “ … e luce fu”.

Era successo che mentre il grosso degli occupanti, considerate le oggettive difficoltà, si perdeva in chiacchiere e discorsi sull’opportunità o meno di continuare l’esplorazione, il nostro eroe aveva agito. Equipaggiato di accendino anti vento Zippo aveva scoperto il posto dell’energia e aveva fatto il suo mestiere. Ora che ci ripenso  gli operai che mi staccarono l’energia non fecero un lavoro accurato piombando il contatore e quanto altro necessario ma si limitarono ad un veloce “ … stacca il filo e andiamo via che stasera c’è la finale della coppa Rimet”. E così il nostro eroe, senza all’apparenza commettere infrazioni, non fece altro che attaccare un filo che uno schiocco aveva staccato.

E io godei come un riccio femmina.

Non ricordo di esser stata così bene come quella sera. Nemmeno il giorno della festa della copertura. In quegl’anni; correva la fine del settecento: era ancora in uso organizzare una grande festa per la posa dell’ultima tegola del tetto. Il banchetto, che gli operai definivano rialto, fu quanto mai abbondante e sostanzioso mentre la festa da ballo che seguì si trasformò in una gara allo sputo. Vinse il Bernaschi di Greve che durante l’orario di lavoro era il sottomanovale del capomastro ma quando si trattava di lanciar saliva non lo batteva nessuno.

Questa la vinse con nove passi e novantanove. Misura certificata dal figlio del fattore; notorio pezzo di merda; che studiava da agrimensore a Rovigo ed era infallibile nella stima delle distanze. Misura, tra le altre, assai ragguardevole considerato che il gesto atletico era stato eseguito senza l’ausilio del nocciolo, variante introdotta da poco, che a volte aumentava la distanza anche del cinquanta per cento e anche di più.

Il giorno dopo i bagordi cambiarono le maestranze.

Rimase il capomastro col suo fedele sputatore. Gli altri furono sostituiti, per un normale e preventivato avvicendamento, dagli operai delle finiture: pavimentatori, intonacatori, falegnami, tinteggiatori e via di seguito. Le squadre lavorarono di buona lena per tutta l’estate e la domenica del Perdono di Terranuova mi bagnarono tutta. Con un bel fiasco, anzi vorrei correggermi  … una damigiana, di rosso della vicina collina m’innaffiarono le parti basse dei piedritti  della porta d’ingresso.

E se guardate bene, nonostante il tempo, ancora si vede qualche macchiolina.

Comunque sia il giorno dopo arrivò la prima famiglia: una quindicina di persone con due gatti, tre cani oltre a vari animali da cortile e bestiame vario. Diventar mezzadri della fattoria, a quel tempo, composta da alcune decine di poderi dislocati dal Pratomagno alle rive dell’Arno, era cosa ambitissima. Figurarsi poi abitare una dimora appena costruita senza muffe, sudiciumi e olezzi vari. Il fattore mi aveva fatto capire; tra le righe di una chiacchiera col  bifolco; che ero la costruzione di punta dell’azienda edificata secondo le ultime e più moderne regole agronomiche seguendo le regole dettate dal Morozzi nel suo trattato “Delle case de' contadini”. Mi avevano dotato di: grande fienile a due piani, aia dirimpetto all’ingresso, recinto per l’allevamento suini, grotta scavata sotto l’aia per la stagionatura dei prosciutti, orto esposto a sud – est e pollaio recintato. Le stalle occupavano tutto il piano terreno mentre un filare di Gelsi abbelliva il fronte e dava da mangiare ai bombi che mi abitavano la soffitta.

Ma torniamo a bomba.

Facciamo un salto nel tempo fino a quella notte di fine anni settanta anzi alla mattina dopo. È un giorno di festa e da tempo i ragazzi disertano le funzioni religiose standard figurarsi oggi. Alcuni, per l’eccitazione accumulata, non hanno neanche preso sonno e si son presentati un’ora prima del fissato. Eccoli quindi di buon ora armati di attrezzi, arnesi e materiali. Ognuno per le proprie capacità si mette al lavoro. I lavori si protraggono nelle sere successive per alcune settimane. Smontano e saldano, collegano e giuntano, dipingono e tappano e via fino al sette dicembre dopo cena quando il tenutario del contratto di locazione dichiara la fine dei lavori.

Per l’Immacolata m’accendono il camino per cucinare polenta e ribollita.

Tutti ingredienti a “chilometro zero” compreso condimenti e beveraggi. Rammento che fu il desinare più alcolico a cui mi sia mai capitato di assistere anche a paragone di battesimi, sposalizi, comunioni e battiture degli anni d’oro del podere. Per molti dei commensali quella festa sembrava il massimo cui poteva aspirare il gruppo che era pur sempre formato da gente di campagna anche se diversi travagliavano in fondovalle in varie manifatture e un paio studiavano ancora. Quindi al brindisi finale proposero la data, il trentuno del mese, della prossima cena con i soliti amici.

Ma non andò così.

Non ricordo chi fu ma uno dei soci aveva appena veduto una pellicola demenziale dove ad un certo punto un pazzo scatenato; tale Bluto Blutarsky; se n’esce con una battuta che poi diventerà un culto tra i ragazzi della casa. La riporto fedelmente perché l’ho ascoltata tante di quelle volte che la so tutta per filo e segno: (BB | JB | Animal House, 1978) “Cosa? È finita? Hai detto finita? Non finisce proprio niente se non l'abbiamo deciso noi. È forse finita quando i tedeschi hanno bombardato Pearl Harbour? Col cazzo che è finita! E qui non finisce, perché quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”.

Organizzarono quindi una fantasmagorica festa per la fine dell’anno settantotto

La prima di molte altre nei tre anni che mi abitarono. Questa fu ricordata come “la 300” perché richiamò più di duecentoottanta persone in un luogo in mezzo al niente: sperduto, buio, con strada sterrata e infangata e senza parcheggio. Magari il grande successo fu dovuto a due o tre fattori che vado ad elencare: aperta a tutti, dotata di buffet imperiale con cibi e bevande a go-go, musica con “resident dj”, luci effetto sala da ballo e ingresso (presentato come offerta libera) ad un terzo rispetto a quanto richiesto nelle discoteche in valle. E poi, “dulcis in fundo”, c’erano due stanze buie, dotate di tutti gli agi, adibite a “privè”.

La nascita, nove mesi dopo, di AB confermò la bontà dell’idea.

Solo un fatto macchiò la serenità di quel giorno per il resto campale. Fidando del mestiere di tipografo di uno del gruppo fu affidata a lui la comunicazione pubblicitaria dell’evento. In un mondo senza “social e telefonini” furono disegnati e stampati un paio di cento biglietti d’invito su carta In quell’occasione, considerate le pruderie dei conduttori e le chiacchiere delle comari del paese, fui anche battezzata con un appellativo che mi porto addosso ancora adesso: “la Casa del peccato” preceduto dal disegno di un diavoletto che porge un mazzo di fiori. L’invito circolò in tutto il Valdarno e forse anche più in la. Fu talmente efficace che il pomeriggio della festa un signore suonò alla porta d’ingresso. L’imbianchino che si affacciò dichiarò di conoscerlo come Benescutti Giano, grandissima testina di quiz e buon amico di suo fratello sposato. Alcuni ragazzi erano intenti agli ultimi ritocchi tecnologici per sistemare il banco dei giradischi e il controllo luci mentre altri stavano spazzando e tirando a lucido i locali. La musica andava a tutto volume sui “ … Floyd at Pompei”. Il tipo;  grassottello e tracagnotto con i capelli brizzolati e unti di brillantina aveva per sovra più un paio di baffetti da sparviero che me lo fecero apparire subito molto antipatico; dichiarò di non voler entrare in casa in quanto pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.

Anzi fece scendere il gruppo di ragazzi.

Qui cavò di tasca una tessera plastificata che raccontava la sua seconda professione; durante la settimana inchiodava suole; di controllore o ispettore o simile per conto di una fantomatica società di autori.  Subito attaccò una filippica sul fatto che stavamo organizzando una festa abusiva che avrebbe coinvolto mezzo Valdarno con il rischio di far chiudere i locali regolari ed altro sciorinando. I ragazzi erano basiti. Nessuno ebbe il coraggio di ribattere o fiatare. Tutti erano intenti a pensare come se la potevano cavare contro questo losco figuro che era arrivato appositamente per scassare le uova nel paniere. Intanto il nostro eroe difensore della musica calò il settebello con: ”…. E poi c’è il fatto delle canzoni …”. “Che centrano le canzoni” – ribatté il disc jockey stringendo minaccioso il microfono gelato che gli era spuntato in mano. E l’ispettore: “ C’entrano … c’entrano … e come se c’entrano. Prima di tutto qui conto più di dieci persone, ma ho notizia che ne sono attese almeno altre duecento. Poi dovete sapere quando si suona in pubblico c’è da pagare i diritti agli autori delle canzoni …”.  E via continuando per altri dieci minuti sull’etica e sul lavoro intellettuale e artistico.

Poi all’improvviso smise di blaterare e sorrise sotto i baffoni.

Come se fosse Kaa il serpente di Mowgli cambio voce. Passò in modalità “strisciante” e disse: “ Comunque ci si pole accordare  – altro risolino accompagnato da occhiolino destro che lampeggia sotto e sopra - … vi lascio questo stampato che voi riempite con i titoli delle canzoni che pensate di suonare.  Mi raccomando scrivetene almeno un centinaio e anche di più ché la notte del trentuno è lunga e dovete essere credibili. Poi il due tuo fratello - rivolto all’imbianchino -  me lo porta e lo metto agli atti. Intanto saldate i diritti. Dunque … dunque … - comincia a scrivere su un taccuino da investigatore che aveva in tasca -   tre per due più duecento a stima meno centoventi diviso tre uguale … ecco … ci siamo. Fanno centoventimila esatte. In contanti prego”.

Dodici erano i mie eroi. Con altrettanti deca, serbati per la festa, oblarono.

Nei tre anni che mi usarono non mi fecero mai violenza. Anzi per quanto possibile, viste le loro esigue finanze di ragazzi poco più che maggiorenni, mi sistemarono alcune magagne come tegole rotte, angoli sbrecciati, crepe varie, riprese d’intonaco, mattonelle smurate e su iniziativa del falegname perfino la porta del bagno. Nella primavera del settantanove m’imbellettarono, per la verità solo le stanze che usavano, con una mano di bianco burro bella densa. Quell’estate poi uno degli studenti che aveva alcune, devo dire ingiustificate, pruderie artistiche mi fece compagnia per un paio di giorni dalla mattina alla sera. Si era messo in testa di riprodurre il marchio di un gruppo rock nato a Londra nei  primi del sessanta. E lo voleva disegnare nella nicchia del lavello in pietra della mia cucina. E lo fece. Ci mise in realtà più di una settimana compreso il tempo adoprato per ripensamenti, cancellature e dipinture a coprire la prima versione. Poi si ricordò del sistema della griglia che aveva imparato in gioventù con i primi rudimenti di disegno tecnico.

Se n’andò per mezz’ora e quando ritornò era raggiante.

Aprì a pagina trenta il libro; educazione artistica delle medie; che si era portato e lesse a voce alta: “Il Reticolo. Ingrandire un disegno: Per eseguire una copia esatta di un disegno è facile basta ricalcarlo. Ma se occorre una copia in scala maggiore o minore, il metodo della griglia è il più semplice e garantisce un disegno accurato e di proporzioni esatte”. Quindi col lapis morbido disegnò la griglia sopra al disegno originale e subito a seguire, ingrandita di un tot, sulla parete. Dopo di ché fu facile e veloce. Alla fine del terzo pomeriggio il disegno al tratto era completato. Il quarto e quinto bastarono a dipingere la boccaccia di MJ su fondo giallo con cerchio bianco.

Pulire schizzi e macchie fu più dura.

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