Percorsi | 2005
Sono arrivato a
Firenze con il treno da Roma.
Arrivo da
lontano. Per arrivare in Italia ho dovuto prendere l’aereo. Il viaggio sono di
quelli che non ti scordi specialmente se, come me, non sei mai uscito dal paese
degli Incas. Volo intercontinentale da Quito fino alla città del Papa e poi in
treno fino alla stazione di Michelucci. Esco fuori e ti vedo il sedere di Santa
Maria Novella insieme a quello di una certa signora bionda tutta agghindata con
minigonna, tacchi alti e camicetta trasparente colore arancione.
Notevoli tutti e
due
.
I denari sono
pochi e allora mi decido di saltare il taxi e prendere alla pedona. Devo
arrivare in Oltrarno e secondo la planimetria che mi sono portato dall’altra
parte del mondo saranno solo due chilometri e ventidue metri fino all’Istituto.
Mi trascino la valigia di cartone lungo via de’ Panzani e via de’ Cerretani fino a piazza più bella
del mondo.
Qui c’è la
basilica di Santa Maria del Fiore e la
Cupola di Filippo.
C’è il
battistero ottagono; rivestito a strisce bianco e verde; e poi la torre di
Giotto. Ma non ho tempo di stare ad osservare ‘ste bellezze. Lo farò nei
prossimi giorni con tutta calma. Percorro in fretta la via degli scarpai fino
alla piazza dei signori. Il palazzo è Vecchio ma lo spazio è stupendo. Mi
infilo nel corridoio degli Uffizi e sbuco al fiume. L’Arno è lì che scorre
placido in questa fine giornata di inizio estate. Oggi è il ventidue del mese
dei gemelli e mi pare che tra due giorni sarà la festa del patrono della città
e la sera ci saranno i fuochi lungo il fiume. Ma non ho tempo per ‘sti pensieri
che mi devo ancora sistemare. Il portico sotto il percorso Vasariano mi conduce verso il ponte
antico.
Ponte Vecchio
varca il fiume con tre arcate e nel
mezzo ci si può affacciare.
Nel mentre passo
sopra al ponte mi viene in mente una filastrocca/indovinello che mi raccontava
la nonna materna che proveniva da un paesello qui vicino: “… O nini ascolta questa. Sotto il ponte c’è tre conche. Passa il lupo
e non le rompe. Passa il cane e ne rompe due. Chi è il più bravo di questi
due?”. E io invariabilmente cascavo nel tranello. Se rispondevo il lupo lei
diceva il cane e viceversa. Giochino innocente di tempi innocenti.
Ma ora penso
all’arte. Vivo per l’arte.
Ho vinto la
borsa di studio del Pio Istituto de’ Bardi e ora vado a riscuotere il premio
che vuol dire sei mesi a Firenze a studiar l’arte. Via Guicciardini e poi la
piazza e il palazzo de’ Pitti. Via veloce fino alla via degli antiquari che
prende il nome da un mese dell’anno. Ora sono vicino.
Ecco la strada.
Ecco il palazzo.
Entro dalla
grande porta ad arco sul fronte. Il corridoio è buio e sul fondo si percepisce
la presenza del cortile interno. A destra intravedo le scale che salgono ai
piani di sopra e magari le scendo dopo essermi sistemato nella stanza. Sulla
sinistra una serie di varchi sulla spessa parete mi conducono verso la stanza
della segreteria. Qui mi posso informare sulle attività dell’Istituto e più nel
dettaglio di quello che succede all’interno del palazzo. Mi riceve una gentile
signora che mi fa accomodare e mi racconta in breve degli antefatti storici
e del conte Girolamo Bardi appassionato
cultore di scienze, illuminista e liberale. Della sua volontà di favorire
l’istruzione e la preparazione tecnica degli artigiani. Della storia della
scuola e poi del palazzo. E infine delle ultime vicende che hanno portato alla
creazione del centro per l’arte in cui mi trovo. Sono naturalmente un
visitatore interessato perché vi abiterò per i prossimi sei mesi. Lascio le
valigie in un angolo e chiedo di poter effettuare un giro da solo. A sinistra
della ricezione trovo alcuni locali destinati a sala mostre temporanee. Ho la
segreta speranza che alla fine del mio soggiorno potrò esporvi anche le mie
opere. Nel locale principale c’è un piccolo banco-bar di modo che gli spazi per
mostre diventano una specie di “caffè degli artisti”; un soggiorno comune tra
artisti di tutte le parti del mondo. Un caffè globale. Adesso vado a destra
verso la piccola e fornitissima biblioteca dell’arte. Sono quattro locali,
alcuni voltati, pieni di libri e scaffali e tavoli. Ci sono anche i
collegamenti alla rete internet e tutto quanto occorre alle mie ricerche. La
biblioteca è a disposizione del quartiere e della città e in generale a chi ne
fa richiesta. Mi pare una bella idea. Adesso è ora di salire sopra. Mi riprendo
le valigie e mi viene data la chiave numero ventidue. Accedo al cortile
interno. Mi trovo in uno spazio aperto-coperto. Una serie di orizzontamenti
fatti a griglia mi fa vedere il cielo arrossato di un fine pomeriggio
fiorentino. Un blocco di scale in metallo ma tutte aeree e trasparenti mi
potrebbe condurre di sopra. Ma ho le valigie e sono stanco per la scarpinata di
poco fa. Vado all’ascensore che è grande e anch’esso con pareti grigliate. Una
specie di montacarichi evoluto come quello che si vede in certi film “made in
USA” dove gli artisti abitano vecchi opifici. Sono sicuro che potrà trasportare
anche le opere che ho in mente di fare durante questo soggiorno. L’ascensore
arriva al primo. Esco dalla macchina per salire e entro nell’edificio. Mi
oriento nei meandri del palazzo e percorro il corridoio in destra e poi in
sinistra. I numeri vanno dall’uno al dieci.
Evidentemente mi
sono perso di nuovo.
Come spesso mi
accade. Mi decido per suonare al campanello numero otto. Alla porta mi accoglie
un giovane di colore. Si chiama Manimba e viene dalla Nigeria. E’ arrivato ieri
ed è qui con una borsa di studio dell’Istituto. Come me. Lui conosce già il
posto e nel mio francese stentato gli chiedo se ha voglia di accompagnarmi fino
al numero ventidue. Per prima cosa si fa dapparte e mi invita dentro al suo. E’
un alloggio su due livelli soppalcati. Con tre grande finestre di cui una
affaccia su via Maggio. Bagno, cucina e spazio per lavoro al piano di ingresso.
La scala a chiocciola conduce sopra il soppalco dove si trova il posto per
dormire e un altro piccolo locale igienico. Veramente bello e funzionale. Spero
che il mio lo sia altrettanto. Manimba mi informa che quasi tutti gli alloggi a
questo piano sono soppalcati mente quelli ai piani sopra sono su un unico
livello. Dopo aver gustato un bicchiere di rosso ci si avvia al secondo piano.
Ora si prende le scale interne che si avvitano per due rampe fino al mezzanino
e per altre due fino al piano successivo. Qui il solito meandro di corridoi
conduce ad altri numeri: dal quindici al ventuno. Il mio non c’è ancora. Che
sia uno scherzo questa chiave numero ventidue che mi porto in tasca? Manimba mi
conduce per una stretta rampa di scale e suona al quindici. Una bellissima
meticcia di circa venticinque anni, con capelli corvini e denti bianchi, apre
la porta.
Proviene da Rio
in Brasile e si chiama Eva.
E’ qui con il
compagno e il piccolo Oscar per un soggiorno ”full immersion” nell’arte del trecento fiorentino. E’ qui per
ritrovar la vena dell’arte che ha smarrito nella spiaggia di Copacabana. Paga
una quota per l’alloggio e per l’uso dei servizi comuni ed è felice. Glielo si
legge dentro gli splendidi occhi verde smeraldo. Il compagno Danilo insieme al
piccino di tre anni sono in giro per mercatini e lei ci fa entrare. L’appartamento è spettacolare. Con
finestre che si affacciano sui tetti di
Firenze e poi dalla camera si vede la facciata di Santo Spirito. Il soggiorno
ha il soffitto in pendenza e un grande camino a tutta parete. Splendido. Ma ora
si deve uscire per cercare il numero ventidue. Al piano di sopra l’ascensore
non arriva e allora si prende l’ennesima scala dalla parte opposta al quindici.
Una piccola freccia ci informa che siamo vicini. Salgo i gradini due a due fino
alla fine della scala. In cima alla rampa la targhetta in acciaio corten; che
porta inciso due – due; è a sinistra della porta. Provo la
chiave e appoggio le valigie.
Mi guardo
intorno.
Mi trovo dentro
un monolocale che affaccia sul cortile. Una stanza unica dove mangiare, stare,
lavorare, dormire. Mi sento alquanto deluso dal trattamento riservatomi:
all’ultimo piano e all’ultimo alloggio. Il più brutto. Ma poi sento un rumore.
Lo sento sopra di me. Lo sento sopra il solaio. Un battito leggero. Ma talmente
leggero che quasi non si sente. Come un piede che batte il tip-tap a tempo di
jazz. Lascio di stucco il mio cicerone e mi sparo fuori dell’uscio. Il
corridoio si strettisce ancora e finalmente, fatti pochi passi, la trovo. Trovo
la scala che si inerpica verso il fuori.
Verso l’altana.
Si tratta di una
stanza coperta ma aperta di circa metri sei e ventidue per sei e ventidue di
forma circa quadrata con copertura a padiglione e capriate in legno. Dai
parapetti c’è una vista mozzafiato sui tetti della città. Dirimpetto alla
scala; ad una distanza di ventidue più
ventidue metri; c’è il fianco alto e
snello del Santo Spirito di Brunello. In un angolo c’è un giovane dai capelli
lunghi e scuri; seduto su una piccola sedia davanti a un cavalletto di legno di
ciliegio; intento a dipingere una piccola tela di centimetri ventidue per
ventidue nel mentre che batte i piedi al ritmo di una musica immaginaria.
Evidentemente il nostro arrivo lo distoglie
dal sacro fuoco delle arti perché si gira verso di noi e con l’idioma del posto
fa: “… Buongiorno … permettete che mi
presenti. Sono il fratello minore di Tommaso Cassai ma tutti mi chiamano,
chissà perché, lo Scheggia”.
Nessun commento:
Posta un commento