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16/01/20

Percorsi



Percorsi | 2005

Sono arrivato a Firenze con il treno da Roma.

Arrivo da lontano. Per arrivare in Italia ho dovuto prendere l’aereo. Il viaggio sono di quelli che non ti scordi specialmente se, come me, non sei mai uscito dal paese degli Incas. Volo intercontinentale da Quito fino alla città del Papa e poi in treno fino alla stazione di Michelucci. Esco fuori e ti vedo il sedere di Santa Maria Novella insieme a quello di una certa signora bionda tutta agghindata con minigonna, tacchi alti e camicetta trasparente colore arancione.

Notevoli tutti e due
.
I denari sono pochi e allora mi decido di saltare il taxi e prendere alla pedona. Devo arrivare in Oltrarno e secondo la planimetria che mi sono portato dall’altra parte del mondo saranno solo due chilometri e ventidue metri fino all’Istituto. Mi trascino la valigia di cartone lungo via de’ Panzani  e via de’ Cerretani fino a piazza più bella del mondo.

Qui c’è la basilica di Santa Maria del Fiore  e la Cupola di Filippo.

C’è il battistero ottagono; rivestito a strisce bianco e verde; e poi la torre di Giotto. Ma non ho tempo di stare ad osservare ‘ste bellezze. Lo farò nei prossimi giorni con tutta calma. Percorro in fretta la via degli scarpai fino alla piazza dei signori. Il palazzo è Vecchio ma lo spazio è stupendo. Mi infilo nel corridoio degli Uffizi e sbuco al fiume. L’Arno è lì che scorre placido in questa fine giornata di inizio estate. Oggi è il ventidue del mese dei gemelli e mi pare che tra due giorni sarà la festa del patrono della città e la sera ci saranno i fuochi lungo il fiume. Ma non ho tempo per ‘sti pensieri che mi devo ancora sistemare. Il portico sotto il  percorso Vasariano mi conduce verso il ponte antico.

Ponte Vecchio varca il fiume con tre arcate  e nel mezzo ci si può affacciare.

Nel mentre passo sopra al ponte mi viene in mente una filastrocca/indovinello che mi raccontava la nonna materna che proveniva da un paesello qui vicino: “… O nini ascolta questa. Sotto il ponte c’è tre conche. Passa il lupo e non le rompe. Passa il cane e ne rompe due. Chi è il più bravo di questi due?”. E io invariabilmente cascavo nel tranello. Se rispondevo il lupo lei diceva il cane e viceversa. Giochino innocente di tempi innocenti.

Ma ora penso all’arte. Vivo per l’arte.

Ho vinto la borsa di studio del Pio Istituto de’ Bardi e ora vado a riscuotere il premio che vuol dire sei mesi a Firenze a studiar l’arte. Via Guicciardini e poi la piazza e il palazzo de’ Pitti. Via veloce fino alla via degli antiquari che prende il nome da un mese dell’anno. Ora sono vicino.

Ecco la strada. Ecco il palazzo.

Entro dalla grande porta ad arco sul fronte. Il corridoio è buio e sul fondo si percepisce la presenza del cortile interno. A destra intravedo le scale che salgono ai piani di sopra e magari le scendo dopo essermi sistemato nella stanza. Sulla sinistra una serie di varchi sulla spessa parete mi conducono verso la stanza della segreteria. Qui mi posso informare sulle attività dell’Istituto e più nel dettaglio di quello che succede all’interno del palazzo. Mi riceve una gentile signora che mi fa accomodare e mi racconta in breve degli antefatti storici e  del conte Girolamo Bardi appassionato cultore di scienze, illuminista e liberale. Della sua volontà di favorire l’istruzione e la preparazione tecnica degli artigiani. Della storia della scuola e poi del palazzo. E infine delle ultime vicende che hanno portato alla creazione del centro per l’arte in cui mi trovo. Sono naturalmente un visitatore interessato perché vi abiterò per i prossimi sei mesi. Lascio le valigie in un angolo e chiedo di poter effettuare un giro da solo. A sinistra della ricezione trovo alcuni locali destinati a sala mostre temporanee. Ho la segreta speranza che alla fine del mio soggiorno potrò esporvi anche le mie opere. Nel locale principale c’è un piccolo banco-bar di modo che gli spazi per mostre diventano una specie di “caffè degli artisti”; un soggiorno comune tra artisti di tutte le parti del mondo. Un caffè globale. Adesso vado a destra verso la piccola e fornitissima biblioteca dell’arte. Sono quattro locali, alcuni voltati, pieni di libri e scaffali e tavoli. Ci sono anche i collegamenti alla rete internet e tutto quanto occorre alle mie ricerche. La biblioteca è a disposizione del quartiere e della città e in generale a chi ne fa richiesta. Mi pare una bella idea. Adesso è ora di salire sopra. Mi riprendo le valigie e mi viene data la chiave numero ventidue. Accedo al cortile interno. Mi trovo in uno spazio aperto-coperto. Una serie di orizzontamenti fatti a griglia mi fa vedere il cielo arrossato di un fine pomeriggio fiorentino. Un blocco di scale in metallo ma tutte aeree e trasparenti mi potrebbe condurre di sopra. Ma ho le valigie e sono stanco per la scarpinata di poco fa. Vado all’ascensore che è grande e anch’esso con pareti grigliate. Una specie di montacarichi evoluto come quello che si vede in certi film “made in USA” dove gli artisti abitano vecchi opifici. Sono sicuro che potrà trasportare anche le opere che ho in mente di fare durante questo soggiorno. L’ascensore arriva al primo. Esco dalla macchina per salire e entro nell’edificio. Mi oriento nei meandri del palazzo e percorro il corridoio in destra e poi in sinistra. I numeri vanno dall’uno al dieci.

Evidentemente mi sono perso di nuovo.

Come spesso mi accade. Mi decido per suonare al campanello numero otto. Alla porta mi accoglie un giovane di colore. Si chiama Manimba e viene dalla Nigeria. E’ arrivato ieri ed è qui con una borsa di studio dell’Istituto. Come me. Lui conosce già il posto e nel mio francese stentato gli chiedo se ha voglia di accompagnarmi fino al numero ventidue. Per prima cosa si fa dapparte e mi invita dentro al suo. E’ un alloggio su due livelli soppalcati. Con tre grande finestre di cui una affaccia su via Maggio. Bagno, cucina e spazio per lavoro al piano di ingresso. La scala a chiocciola conduce sopra il soppalco dove si trova il posto per dormire e un altro piccolo locale igienico. Veramente bello e funzionale. Spero che il mio lo sia altrettanto. Manimba mi informa che quasi tutti gli alloggi a questo piano sono soppalcati mente quelli ai piani sopra sono su un unico livello. Dopo aver gustato un bicchiere di rosso ci si avvia al secondo piano. Ora si prende le scale interne che si avvitano per due rampe fino al mezzanino e per altre due fino al piano successivo. Qui il solito meandro di corridoi conduce ad altri numeri: dal quindici al ventuno. Il mio non c’è ancora. Che sia uno scherzo questa chiave numero ventidue che mi porto in tasca? Manimba mi conduce per una stretta rampa di scale e suona al quindici. Una bellissima meticcia di circa venticinque anni, con capelli corvini e denti bianchi, apre la porta.

Proviene da Rio in Brasile e si chiama Eva.

E’ qui con il compagno e il piccolo Oscar per un soggiorno ”full immersion” nell’arte del trecento fiorentino. E’ qui per ritrovar la vena dell’arte che ha smarrito nella spiaggia di Copacabana. Paga una quota per l’alloggio e per l’uso dei servizi comuni ed è felice. Glielo si legge dentro gli splendidi occhi verde smeraldo. Il compagno Danilo insieme al piccino di tre anni sono in giro per mercatini e lei ci fa entrare.  L’appartamento è spettacolare. Con finestre  che si affacciano sui tetti di Firenze e poi dalla camera si vede la facciata di Santo Spirito. Il soggiorno ha il soffitto in pendenza e un grande camino a tutta parete. Splendido. Ma ora si deve uscire per cercare il numero ventidue. Al piano di sopra l’ascensore non arriva e allora si prende l’ennesima scala dalla parte opposta al quindici. Una piccola freccia ci informa che siamo vicini. Salgo i gradini due a due fino alla fine della scala. In cima alla rampa la targhetta in acciaio corten; che porta  inciso  due – due; è a sinistra della porta. Provo la chiave e appoggio le valigie.

Mi guardo intorno.

Mi trovo dentro un monolocale che affaccia sul cortile. Una stanza unica dove mangiare, stare, lavorare, dormire. Mi sento alquanto deluso dal trattamento riservatomi: all’ultimo piano e all’ultimo alloggio. Il più brutto. Ma poi sento un rumore. Lo sento sopra di me. Lo sento sopra il solaio. Un battito leggero. Ma talmente leggero che quasi non si sente. Come un piede che batte il tip-tap a tempo di jazz. Lascio di stucco il mio cicerone e mi sparo fuori dell’uscio. Il corridoio si strettisce ancora e finalmente, fatti pochi passi, la trovo. Trovo la scala che si inerpica verso il fuori.

Verso l’altana.

Si tratta di una stanza coperta ma aperta di circa metri sei e ventidue per sei e ventidue di forma circa quadrata con copertura a padiglione e capriate in legno. Dai parapetti c’è una vista mozzafiato sui tetti della città. Dirimpetto alla scala;  ad una distanza di ventidue più ventidue metri; c’è il fianco  alto e snello del Santo Spirito di Brunello. In un angolo c’è un giovane dai capelli lunghi e scuri; seduto su una piccola sedia davanti a un cavalletto di legno di ciliegio; intento a dipingere una piccola tela di centimetri ventidue per ventidue nel mentre che batte i piedi al ritmo di una musica immaginaria. Evidentemente il  nostro arrivo lo distoglie dal sacro fuoco delle arti perché si gira verso di noi e con l’idioma del posto fa: “… Buongiorno … permettete che mi presenti. Sono il fratello minore di Tommaso Cassai ma tutti mi chiamano, chissà perché, lo Scheggia”.

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