L’appuntamento | 2003
Il canto del
gallo destò Filippo che rimase alcuni minuti a riflettere e rimuginare sul
nuovo giorno di lavoro che lo attendeva. C’era da gestire il cantiere della
fabbrica con i cento e passa operai che vi lavoravano e con l’inverno ormai alle
porte. Tredici giorni soltanto mancavano al solstizio del 21 e
all’inaugurazione ormai fissata.
Il nostro uomo si
convinse che era ormai l’ora.
Era l’ora di
levarsi dal caldo tepore delle coperte e dal piacevole contatto con il corpo
della giovane moglie. Aprì gli scuri e si affacciò alla piccola finestra
intravedendo, tra la fitta trama di costruzioni, un pezzetto di cielo e la
nuova alba. Il sole era appena spuntato rischiarando fievolmente una città
appena sveglia. L’aria tersa e il freddo pungente lo destarono del tutto.
Sicuramente i
lavoratori erano ormai in cantiere e adesso toccava a lui. Si lavò e si vestì
con eleganti vestiti colorati come si conviene alle persone importanti.
La colazione fu
consumata in fretta che si era ormai fatto tardi.
In cantiere lo
attendeva con impazienza il signor Gilberto; capomastro e responsabile dei
muratori e degli scalpellini extracomunitari. Una pacca sulla spalla e un
sorriso bastarono a rinnovare il saluto mattutino che, ormai da quasi
vent’anni, i due amici si scambiavano.
Insieme misero a punto i dettagli delle ultime fasi dell’opera.
Ordini e
imprecazioni si mischiavano ai rumori del luogo di lavoro.
Mazzuoli e
cazzuole; tegole e mattoni; corde e montacarichi; solide impalcature e
complicati macchinari. Si costruiva la grande fabbrica che avrebbe dato lustro
alla città e consolidato il potere della Famiglia. Le ore passarono in fretta
fino al mezzogiorno.
Oggi era un
giorno speciale.
Si mangiava
tutti insieme. Muratori e fabbri, marmisti e falegnami, lattonieri e
imbianchini, tecnici e dirigenti. Tutti insieme alla stessa tavola; i locali e
quelli che venivano da fuori. Una specie di festa per la posa del tetto che da
lì a poco sarebbe stato completato. I rintocchi della campana sovrastarono i
rumori e la confusione del cantiere.
La pausa del
pranzo era arrivata.
Gli operai
scesero le impalcature e si avviarono all’interno della fabbrica riunendosi
all’improvvisato tavolo realizzato dai carpentieri con gli avanzi del legname.
I camerieri fecero il loro mestiere servendo abbondanti dosi che riscaldarono
il corpo e lo spirito dei commensali. Al desco di fortuna vennero apprezzati
soprattutto i due piatti che si contesero la palma del vincitore fino
all’ultimo boccone: la zuppa lombarda e il peposo alla fornacina. La ciotola di
coccio li contenne tutte e due in compagnia degli innumerevoli gotti di rosso
vino delle vicine colline. La pancia dei commensali accolse di buon grado tutto
questo ben di Dio. Il direttore dei lavori mangiò di buon appetito e bissò più
volte il desinare fino a sentirsi un po’ più che sazio.
Poi, nel mentre
che la festa giungeva al termine, un rapido battito di ali annunciò l’arrivo
del piccione viaggiatore con l’ennesima missiva del Padrone che ricordava al
nostro eroe il consueto appuntamento del pomeriggio. C’era da definire gli
ultimi dettagli relativi all’inaugurazione dell’opera e da stilare la lista
definitiva delle personalità da accogliere sul palco d’onore.
Alla lettura
dell’epistola Filippo si alzò e comunicò che la sua presenza era richiesta in
altro luogo per importanti questioni di lavoro. Ringrazio amici, collaboratori
e operai e si congedò da tutti con un leggero cenno della testa.
Con passi
incerti e traballanti sparì dalla vista del cantiere e del suo progetto: “Struttura sì grande, erta sopra e’ cieli,
ampla da coprire con (la) sua ombra tutti e’ popoli toscani”.
Era il giorno
dell’Immacolata, 8 dicembre dell’anno 1436 in Firenze e Filippo Brunelleschi
architettore si recò alla sua dimora. Informò la famiglia di sentirsi alquanto
aggravato e si approssimò in camera. Chiuse gli scuri e si spogliò. Si coricò a
letto e lì rimase russando sonoramente tutto il pomeriggio bucando il rilevante
appuntamento con il suo committente.
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