Centoventidue |2020
Il vecchio procede incerto.
Col capo piegato in basso quasi a
saggiare il percorso. Pensieroso come una formichina che si è smarrita. È
intabarrato dentro un pastrano del secolo scorso anzi forse di prima della
seconda guerra. Cammina piano preceduto da due delle quattro ruote che gli facilitano
la passeggiata. I cerchi d’alluminio gommati sono una parte, quella che tocca
terra, della macchina che gli permette la ginnastica mattutina.
La prima da molto tempo.
La campana del Duomo di San Clemente
ha appena scandito i sette rintocchi che raccontano l’ora. L’aria è buia ma
essendo l’ultimo giorno di gennaio è normale. “Mi son or ora destato dal torpore che ultimamente mi assale sempre più
spesso. Sarà colpa della circolazione? O forse anche della pressione sempre più
bassa? E se fosse un mix di concause? Magari dipende da altri fattori? Mah!”.
Come sia e in barba ai sapientoni che
tutto sanno io dico: “… è vecchiaia e
basta”.
Il carrello deambulatore di ultima
generazione è veramente un portento; pieghevole e leggero, struttura in tubi d’alluminio
giuntati senza saldature, di buon disegno
e colore di tendenza “Pantone
classic blue 19-4052”, con panchetto in neoprene goffrato adatto alla
seduta oltre a ogni qualsivoglia bisogna, due comodi cestini portaoggetti, due maniglie ergonomiche per azionare i freni
posteriori. E inoltre quattro ruote indipendenti ammortizzate di cui una dotata
di contametri digitale collegato all’avantreno sinistro. Insomma una macchina
dei vostri tempi e per lo più anche ecologica visto che funziona a spinta senza
uso di ulteriori sistemi energetici.
In una parola: “spaziale”.
I tre passettini fatti mi han però
stancato come non immaginavo. D’altra parte è molto tempo che non uscivo per
una sgambata. Son venuti stamani alle cinque. Mi hanno svegliato, fatto scendere
dal piedistallo e messo fretta: bagno, colazione e poi via sopra un nero Van
tedesco dai vetri oscurati. Un’ora di viaggio tra stradine tortuose e viottoli
di campagna, di sicuro per confondermi, e poi mi hanno scaricato sul
marciapiede tra il ponte della Vittoria e viale Colombo in sinistra dell’Agno.
“Ciao nonno …”
mi han salutato i tris nipoti “ … ci si
vede tra un paio d’ore”.
Alzo la testa e giro lo sguardo a
sinistra verso una casetta a due piani con il primo; se ne accorgerebbe anche
un bambino; destinato ad abitazione con i rossi ciclamini adagiati sopra
curiose fioriere attaccate al muro appena sotto le finestre e il terreno; molto
alto e anzi rialzato rispetto al marciapiede; in gran parte vetrato. L’insegna
del bar “la Piscina” mi invita all’ingresso
dal portico retrostante che, peraltro, ha una rampa dolce che facilità la
l’accesso.
Entro e mi servo di caffè macchiato,
pasta alla crema, cioccolatino e lettura giornali.
Con molta calma tanto non ho fretta
considerato che non devo timbrare nessun cartellino. Esco ad alba inoltrata e
riprendo la passeggiata. Sulla destra non è cambiato molto dall’ultima volta;
più di cinquant’anni fa; il fiume scorre ancora verso Chioggia e gli argini
paiono rinforzati, puliti e ben mantenuti. Una recinzione in legno protegge le
sponde dall’inciviltà dei vandali “del
rifiuto selvaggio” mentre per terra calpesto un consunto tavolato che
produce un suono vuoto come quando si sta sul palco del teatro Impero. A
sinistra invece è cambiato tutto. Scomparsi i servizi igienici, gli spogliatoi
con i portici e tutto il resto. Riempite di terra le piscine e pareggiato,
quasi a livello marciapiede, il calpestio del complesso sportivo. In
lontananza si staglia un edificio lungo
un centinaio di metri e alto cinque piani. Da così lontano posso apprezzarne
solo la particolare conformazione planimetrica a pettine con le generose logge
che guardano il fiume e poco altro se non il tetto voltato e la parete
sottostante rivestiti in lamiera grigia. Una piazza in mattoni e pietra d’Istria si diparte dove
finisce il portico del bar e termina nei pressi di un piccolo edificio
cilindrico porticato con lucernario rialzato al centro.
Insolitamente insolito per forma,
dimensioni e proporzioni. “Chissà a cosa
servirà”?
Mi rimetto in moto a piccoli passi.
Senza fretta godo dell’insolito clima mite di questi “giorni della merla” che ieri la bella meteorologa, tutta bionda e
con le gambe al vento, ha definito alquanto bizzarri visto che le temperature
sono ben sopra la media per questo periodo. Alla mancina mi accompagna una
bassa staccionata in assi di legno dipinte di arancio. Dietro s’intravede il
disegno ordinato di terra zappettata e
ben curata, alberi da frutto e piccoli capanni per attrezzi. Una lottizzazione
di orti urbani.
Che idea: verde privato a servizio (e
godimento) pubblico.
Vado avanti. Procedo lento. In questo
momento la mia mascotte di riferimento è la tartaruga e in tutta sincerità
adesso gli somiglio anche un po’. La palizzata in legno termina in un filare di
pioppi che costeggiano in percorso. Sotto al primo albero c’è una grande panca
di legno grezzo per il riposo dei camminatori. Il manufatto è talmente grande
che, se fossi sicuro di riuscire a rialzarmi, mi ci potrei distendere sopra a
vedere scorrere le nuvole. A leggere, inventare e immaginarne figure e forme.
Il mio passatempo preferito da
piccino giù in Sicilia.
E proprio mentre rifletto, con gli
occhi rivolti al cielo, che mi accorgo di un oggetto che mi era prima sfuggito.
Il grande trampolino ”tre … cinque … dieci
metri” è al suo posto. Restaurato di tutto punto con il colore originario.
Come nuovo. Con evidenza salvato dal fuoco del rinnovamento dell’isolato.
Aguzzo la vista e registro che al posto dell’acqua, che non c’è più, rimane il
vuoto di un prato in pendenza fino al fondo della cavea.
Son felice anche se è per me un
mistero un trampolino senz’acqua.
Ma oramai sono in fondo alla
passeggiata. L’ultimo ”popolus alba”
ombreggia il Van dei nipoti che mi son venuti a riprendere. In lontananza i
dodici rintocchi del mezzogiorno
chiamano alla tavola. E anch’io ho un certo languore. Se potessi mangerei: “un bel piatto di polenta bianca con la
soppressa bevendo un calice di prosecco, dolce e caffè corretto alla grappa”. Anche
se, lo so per certo, quelle arpie delle miei cinque figlie non mi faranno
contento. Anzi: “semolino senza sale e
acqua oligominerale”. Una totale ciofeca. Lo stesso menù tutti i giorni,
giorno e sera, da oltre mezzo secolo.
Ma adesso è l’ora della fine.
Son convinto che in fondo in fondo le
parole che contano nella vita di ognuno di noi si possano contare sulle dita di
una mano. La mia ultima l’ho appena letta nel contametri del deambulatore. È un
numero: “centoventidue”, come i metri
di questo percorso ciclopedonale e i miei anni (oggi) se non fosse intervenuto
il piccolo ma fondamentale particolare della morte.
Nel millenovecentocinquantanove.
Oggi.
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