Lettori fissi

28/05/20

Centoventidue



Centoventidue |2020

Il vecchio procede incerto.

Col capo piegato in basso quasi a saggiare il percorso. Pensieroso come una formichina che si è smarrita. È intabarrato dentro un pastrano del secolo scorso anzi forse di prima della seconda guerra. Cammina piano preceduto da due delle quattro ruote che gli facilitano la passeggiata. I cerchi d’alluminio gommati sono una parte, quella che tocca terra, della macchina che gli permette la ginnastica mattutina.

La prima da molto tempo.

La campana del Duomo di San Clemente ha appena scandito i sette rintocchi che raccontano l’ora. L’aria è buia ma essendo l’ultimo giorno di gennaio è normale. “Mi son or ora destato dal torpore che ultimamente mi assale sempre più spesso. Sarà colpa della circolazione? O forse anche della pressione sempre più bassa? E se fosse un mix di concause? Magari dipende da altri fattori? Mah!”.

Come sia e in barba ai sapientoni che tutto sanno io dico: “… è vecchiaia e basta”.

Il carrello deambulatore di ultima generazione è veramente un portento; pieghevole e leggero, struttura in tubi d’alluminio giuntati senza saldature, di buon disegno  e colore di tendenza “Pantone classic blue 19-4052”, con panchetto in neoprene goffrato adatto alla seduta oltre a ogni qualsivoglia bisogna, due comodi cestini portaoggetti,  due maniglie ergonomiche per azionare i freni posteriori. E inoltre quattro ruote indipendenti ammortizzate di cui una dotata di contametri digitale collegato all’avantreno sinistro. Insomma una macchina dei vostri tempi e per lo più anche ecologica visto che funziona a spinta senza uso di ulteriori sistemi energetici.

In una parola: “spaziale”.

I tre passettini fatti mi han però stancato come non immaginavo. D’altra parte è molto tempo che non uscivo per una sgambata. Son venuti stamani alle cinque. Mi hanno svegliato, fatto scendere dal piedistallo e messo fretta: bagno, colazione e poi via sopra un nero Van tedesco dai vetri oscurati. Un’ora di viaggio tra stradine tortuose e viottoli di campagna, di sicuro per confondermi, e poi mi hanno scaricato sul marciapiede tra il ponte della Vittoria e viale Colombo in sinistra dell’Agno.

“Ciao nonno …” mi han salutato i tris nipoti “ … ci si vede tra un paio d’ore”.

Alzo la testa e giro lo sguardo a sinistra verso una casetta a due piani con il primo; se ne accorgerebbe anche un bambino; destinato ad abitazione con i rossi ciclamini adagiati sopra curiose fioriere attaccate al muro appena sotto le finestre e il terreno; molto alto e anzi rialzato rispetto al marciapiede; in gran parte vetrato. L’insegna del bar “la Piscina” mi invita all’ingresso dal portico retrostante che, peraltro, ha una rampa dolce che facilità la l’accesso.

Entro e mi servo di caffè macchiato, pasta alla crema, cioccolatino e lettura giornali.

Con molta calma tanto non ho fretta considerato che non devo timbrare nessun cartellino. Esco ad alba inoltrata e riprendo la passeggiata. Sulla destra non è cambiato molto dall’ultima volta; più di cinquant’anni fa; il fiume scorre ancora verso Chioggia e gli argini paiono rinforzati, puliti e ben mantenuti. Una recinzione in legno protegge le sponde dall’inciviltà dei vandali “del rifiuto selvaggio” mentre per terra calpesto un consunto tavolato che produce un suono vuoto come quando si sta sul palco del teatro Impero. A sinistra invece è cambiato tutto. Scomparsi i servizi igienici, gli spogliatoi con i portici e tutto il resto. Riempite di terra le piscine e pareggiato, quasi a livello marciapiede, il calpestio del complesso sportivo. In lontananza  si staglia un edificio lungo un centinaio di metri e alto cinque piani. Da così lontano posso apprezzarne solo la particolare conformazione planimetrica a pettine con le generose logge che guardano il fiume e poco altro se non il tetto voltato e la parete sottostante rivestiti in lamiera grigia. Una piazza  in mattoni e pietra d’Istria si diparte dove finisce il portico del bar e termina nei pressi di un piccolo edificio cilindrico porticato con lucernario rialzato al centro.

Insolitamente insolito per forma, dimensioni e proporzioni. “Chissà a cosa servirà”?

Mi rimetto in moto a piccoli passi. Senza fretta godo dell’insolito clima mite di questi “giorni della merla” che ieri la bella meteorologa, tutta bionda e con le gambe al vento, ha definito alquanto bizzarri visto che le temperature sono ben sopra la media per questo periodo. Alla mancina mi accompagna una bassa staccionata in assi di legno dipinte di arancio. Dietro s’intravede il disegno ordinato di terra zappettata  e ben curata, alberi da frutto e piccoli capanni per attrezzi. Una lottizzazione di orti urbani.

Che idea: verde privato a servizio (e godimento) pubblico.

Vado avanti. Procedo lento. In questo momento la mia mascotte di riferimento è la tartaruga e in tutta sincerità adesso gli somiglio anche un po’. La palizzata in legno termina in un filare di pioppi che costeggiano in percorso. Sotto al primo albero c’è una grande panca di legno grezzo per il riposo dei camminatori. Il manufatto è talmente grande che, se fossi sicuro di riuscire a rialzarmi, mi ci potrei distendere sopra a vedere scorrere le nuvole. A leggere, inventare e immaginarne figure e forme.

Il mio passatempo preferito da piccino giù in Sicilia.

E proprio mentre rifletto, con gli occhi rivolti al cielo, che mi accorgo di un oggetto che mi era prima sfuggito. Il grande trampolino ”tre … cinque … dieci metri” è al suo posto. Restaurato di tutto punto con il colore originario. Come nuovo. Con evidenza salvato dal fuoco del rinnovamento dell’isolato. Aguzzo la vista e registro che al posto dell’acqua, che non c’è più, rimane il vuoto di un prato in pendenza fino al fondo della cavea.

Son felice anche se è per me un mistero un trampolino senz’acqua.

Ma oramai sono in fondo alla passeggiata. L’ultimo ”popolus alba” ombreggia il Van dei nipoti che mi son venuti a riprendere. In lontananza i dodici  rintocchi del mezzogiorno chiamano alla tavola. E anch’io ho un certo languore. Se potessi mangerei: “un bel piatto di polenta bianca con la soppressa bevendo un calice di prosecco, dolce e caffè corretto alla grappa”. Anche se, lo so per certo, quelle arpie delle miei cinque figlie non mi faranno contento. Anzi: “semolino senza sale e acqua oligominerale”. Una totale ciofeca. Lo stesso menù tutti i giorni, giorno e sera, da oltre mezzo secolo.

Ma adesso è l’ora della fine.

Son convinto che in fondo in fondo le parole che contano nella vita di ognuno di noi si possano contare sulle dita di una mano. La mia ultima l’ho appena letta nel contametri del deambulatore. È un numero: “centoventidue”, come i metri di questo percorso ciclopedonale e i miei anni (oggi) se non fosse intervenuto il piccolo ma fondamentale particolare della morte.

Nel millenovecentocinquantanove. Oggi.

Nessun commento:

Posta un commento

La scappata

La scappata | 2021 Il sedici del quarto si decisero a cercarlo. Se n’era andato verso la fine dell’estate precedente con famiglia, animal...